Zero Day e Robert De Niro: se il finale della serie si scontra con la verità (a)politica di Hollywood

La conclusione della serie Netflix esalta il valore della sincerità. Tuttavia, l'attore non ha potuto (o voluto) dire la propria sul tumulto che stanno vivendo gli Stati Uniti. Altro preoccupante caso di quanto le domande politiche non siano più accettate.

Robert De Niro in Zero Day

Come, dire: la fantasia che supera la realtà. Oppure, è la realtà a superare la fantasia. Sta di fatto che, se viviamo in tempi strani, è ancora più strano che un attore come Robert De Niro non possa dire la sua durante un'intervista. Ma andiamo con ordine: in Zero Day, nel quale interpreta un ex Presidente degli Stati Uniti, la verità è il filo rosso che lega le sei puntate, culminando proprio con una rivelazione in grado di lasciare scioccati. E no, se dovessimo dire la nostra, la serie Netflix ideata da una coppia di giornalisti, ovvero il corrispondente del New York Times Michael S Schmidt e l'ex produttore della NBC Noah Oppenheim, potrebbe essere tranquillamente considerata come una miniserie, senza un possibile proseguo in una seconda stagione.

Zero Day, il finale: la verità a qualunque costo

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Robert De Niro in Zero Day

Come già raccontato nella nostra recensione, Zero Day parte da un catastrofico attacco hacker: gli Stati Uniti crollano in pochi secondi, dopo un improvviso black out tecnologico. Una serie inzuppata di politica, quindi, che vede appunto De Niro nel ruolo di Robert Mullen, former president molto amato dal popolo (la dote? L'empatia), messo a capo della commissione d'inchiesta che indaga sull'attacco. A nominarlo, direttamente la presidentessa Mitchell (Angela Bassett), intenta a trovare i colpevoli nel più breve tempo possibile. Anche perché, gli hacker, sembra abbiano promesso un ulteriore attacco. Se il capo espiatorio può essere facilmente individuato nei russi, Mullen sceglie invece di approfondire, scoperchiando un'esplosiva cospirazione: dietro lo zero-day ci sono funzionari governativi affiancati da potentissimi imprenditori.

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Robert De Niro e Angela Bassett

Scopriamo infatti che lo Zero Day del titolo è legato all'app sviluppata da Monica Kidder (Gaby Hoffmann), poi uccisa (o suicidatasi?) in prigione. Pur non avendo trovato tutti i colpevoli, Mullen è partito dai troll cospirazionisti dell'ultradestra per risalire a quelle figure chiave convinte che l'instabilità globale porti ad una nuova rinascita dell'America (cosa vi ricorda?). A conti fatti, molti personaggi erano a conoscenza dell'attacco ancora prima che venisse attuato: tra essi, colpo di scena, sua figlia Alexandra Mullen (Lizzy Caplan), membro del Congresso, e il portavoce della Casa Bianca Richard Dreye (Matthew Modine). Il tutto, accompagnato dalle finanze dell'investitore Robert Lydon (Clark Gregg), capace di modellare i mercati. Alla fine di Zero Day, Mullen tiene una conferenza stampa decide di andare contro il diktat della presidentessa - "La verità è la verità, ma non sempre è la cosa più importante" - rivelando, appunto, la realtà su chi ci sia dietro gli attentanti. Del resto, come dice Mullen, "scegliere di fare la cosa giusta è un'occasione per salvare il Paese". Non c'è spiegazione migliore.

Robert De Niro, le interviste e la verità taciuta

Zero Day Scena Serie
Una scena della serie

Peccato però che la verità conti solo all'interno della narrativa, e non nel mondo reale. Una sensazione contraddittoria avvolge l'ennesimo episodio di una catena ormai lunga: l'Occidente artistico ha smesso (o quasi) di prendere posizione. E lo dimostra l'intervista a Robert De Niro, firmata da Xan Brooks per The Guardian: il giornalista, lecitamente, ha chiesto all'attore - che in Zero Day ha una personalità diametralmente opposta a quella di Trump - se fosse più fiducioso o più disperato rispetto alla situazione politica odierna. Brooks, sottolinea quanto Bob De Niro, durante l'intervista, sia apparso cauto, nonostante nel corso degli anni sia stato spesso spietato nei confronti del tycoon (appellandolo con numerosi e fragorosi aggettivi). "Non sono disperato, perché guardo sempre il lato positivo e spero che le cose si sistemeranno da sole e che le persone apprezzeranno la bontà e l'empatia, cercando di fare la cosa giusta", risponde l'attore, tra una pausa e l'altra. "Alcune persone guardano le cose in modo diverso. Hanno valori diversi. Questo mi disturba. Non lo capisco. Ma devo solo guardare le cose in modo ottimista".

Ed è qui che, a dispetto del finale esplosivo di Zero Day, entra in scena un certo timore nei confronti del libero pensiero: il giornalista inglese racconta infatti che la finestra Zoom del publicist si è accesa (tutti gli addetti stampa sono collegati durante le interviste, restando off-screen), chiedendo in modo educato di "tornare allo show, perché non c'è tempo" (una frase che conosciamo bene). In fondo, le indicazioni, scrive Brooks, sono state sottolineato all'inizio dell'intervista: "Netflix ha richiesto che non ci fossero domande personali o politiche".

Se, come riflette il giornalista, anche le grandi star devono "lavorare all'interno di un sistema più ampio", è assurdo vietare domande politiche rispetto ad una serie come Zero Day. Ancora, Xan Brooks, nello splendido pezzo che trovate su The Guardian, si chiede cosa ci sia dietro la scelta di non poter parlare di Trump, e se venga dallo stesso De Niro o dal contratto che lo "obbligherebbe" al silenzio. Sopratutto, il giornalista si domanda - e noi insieme a lui, dato che molte volte, in sede di conferenze o interviste vengono rimbalzate domande politiche - chi possa dire la propria negli Stati Uniti (e non solo), se anche un attore due volte premio Oscar non sia "in grado di parlare". Appunto, chi?