C'è un talento che non si può non riconoscere al quarantasettenne Stephen Chbosky, sceneggiatore televisivo, autore nel 1999 di un piccolo romanzo di culto come The Perks of Being a Wallflower (pubblicato in origine in Italia con il titolo Ragazzo da parete) e regista, nel 2012, della trasposizione del suo stesso libro, Noi siamo infinito, da annoverare fra i più riusciti e toccanti coming of age adolescenziali del cinema americano degli scorsi anni.
Questo talento risiede proprio nella fusione fra l'empatia del suo sguardo di scrittore/regista nei confronti dei propri personaggi e nella sincerità con cui Chbosky mette in scena le varie tappe di una crescita umana connotata da grandi sofferenze, ma anche da gioie altrettanto profonde. Un equilibrio ammirevole in Noi siamo infinito, un progetto senz'altro più personale e 'libero', e invece non sempre impeccabile in Wonder, il suo secondo lungometraggio, a cui comunque non manca la capacità di arrivare al cuore dello spettatore.
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Dietro la maschera: il diario di Auggie
Se l'oggetto di Noi siamo infinito erano i turbamenti dell'adolescenza nel corso del primo anno di liceo, e la fonte il romanzo scritto in forma diaristica scritto sempre da Chbosky, in Wonder il cineasta di Pittsburgh adatta invece (in collaborazione con Jack Thorne e Steve Conrad) uno dei maggiori best seller della recente narrativa per ragazzi, ovvero il libro omonimo di R.J. Palacio, che ha per protagonista un bambino affetto da una grave deformazione facciale a causa della sindrome di Treacher Collins. Il bambino in questione, August Pullman, detto Auggie, ora ha dieci anni e il volto - sottoposto a massiccio make up - di Jacob Tremblay, già prodigioso comprimario di Room (e a breve ne La mia vita con John F. Donovan di Xavier Dolan); e all'inizio del film si prepara a cominciare la scuola media, ma soprattutto a confrontarsi per la prima volta con i propri coetanei dopo un'infanzia trascorsa fra le rassicuranti pareti domestiche.
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Il tòpos del 'debutto' nella collettività dell'ambiente scolastico, insieme a quello di una diversità esteriore fonte di imbarazzo, di discriminazione e di isolamento, costituiscono dunque gli assi portanti di un racconto paradigmatico incentrato sull'ingresso nell'età adolescenziale e sulla difficile gestione di una peculiare forma di alterità. E fin dalle prime battute del film, Stephen Chbosky dipinge con tratti precisi e credibili il microcosmo familiare di Auggie, affiancato da una coppia di splendidi genitori, Isabel (Julia Roberts), madre affettuosa ma dal polso fermo (è lei a spingere affinché il figlio frequenti la scuola), e Nate (Owen Wilson), tenero e protettivo; e da un'amorevole sorella maggiore, Olivia (Izabela Vidovic), che resiste con pervicacia alla frustrazione di dover restare sempre in secondo piano rispetto al fratello. Più convenzionale, invece, la descrizione dello scenario scolastico, i cui personaggi sembrano corrispondere un po' troppo alle canoniche tipologie del filone di appartenenza: dal professore di letteratura brillante e carismatico, Mr. Browne (Daveed Diggs), al bulletto dei quartieri alti Julian (Bryce Gheisar), piccolo campione di doppiezza e di prepotenza.
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Un coming of age fra ironia e commozione
Ma nonostante qualche elemento più convenzionale, e a dispetto di un soggetto ad altissimo rischio di retorica, un film come Wonder, soprattutto se considerato in funzione del proprio pubblico di riferimento, risulta nel complesso piuttosto efficace e convincente. A tal proposito, un merito risiede nella scelta drammaturgica di Chbosky, che riprende la struttura del romanzo della Palacio: dopo un'ampia introduzione tutta dedicata ad Auggie, infatti, il film compie una serie di oscillazioni nella focalizzazione, spostando di volta in volta la prospettiva sulla storia ad alcuni fra i personaggi secondari. Tale espediente contribuisce a conferire ulteriori complessità e sfumature alla narrazione, permettendo anche ad altre figure di emergere in maniera più completa: in particolare Olivia, connotata dalle insicurezze, dal senso di solitudine e dai palpiti tipici dell'adolescenza.
L'altro punto di forza di Wonder risiede nella naturalezza con cui la storia di Auggie si rivela in grado, il più delle volte, di suscitare la nostra partecipazione, senza bisogno di calcare sul pedale del patetico e mantenendosi su un registro più lieve ed ironico. Una lezione che Stephen Chbosky tiene a mente quasi per tutto il film, ma che purtroppo sembra dimenticare in prossimità dell'epilogo, quando l'intreccio mostra almeno un paio di forzature e si adagia su cliché ormai un po' stantii (dalle aggressioni dei teppistelli di turno alla standing ovation conclusiva). Ed è un peccato: perché, senza gli eccessi della parte finale, Wonder avrebbe potuto essere un'opera ancora migliore, all'altezza dei suoi momenti più felici. Un esempio su tutti: quando Auggie, dopo un pessimo esordio alle medie, porta a casa per la prima volta un compagno di classe, Jack Will, interpretato da Noah Jupe (il bambino-rivelazione di Suburbicon). Per capire come la vera commozione nasca spesso dai dettagli più semplici e 'banali' basterebbe prendere questa sequenza: da una parte l'allegra spontaneità di due coetanei impegnati a costruire un'amicizia, dall'altra lo stupore carico di gioia che trabocca irrefrenabile dagli occhi di Julia Roberts. Ecco, provateci voi a guardare una scena del genere e a trattenere le lacrime...
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3.0/5