Decidiamo di iniziare la nostra recensione di We are the Brooklyn Saints con un invito urlato, lo stesso che sentiamo nei primi minuti di questa miniserie in quattro episodi: benvenuti al football. Prodotto, tra gli altri, da Ron Howard e diretto da Rudy Valdez, il documentario disponibile su Netflix potrà entusiasmare facilmente anche i non appassionati del football americano, grazie a un approccio funzionante e con tutti gli elementi al punto giusto. L'argomento principale del documentario è testimoniare una squadra locale di giovanissimi, dai 7 ai 13 anni, alle prese con un obiettivo stagionale: partecipare a un torneo nazionale in Florida. A cavallo tra il documentario più classico, composto da interviste e testimonianze, e un piacevole retrogusto da fiction, complice la storia e le persone che vengono catturate dallo sguardo della macchina da presa, We are the Brooklyn Saints azzecca molto e sbaglia pochissimo.
Obiettivo Florida!
"Contro gli stereotipi di Brooklyn, _Saints come il popolo di Dio_". Così gli allenatori della squadra di bambini tra 7 e 13 anni descrivono il loro progetto dei Brooklyn Saints, una squadra locale di football americano che sogna di partecipare ai campionati nazionali che avranno sede in Florida. Un obiettivo raggiungibile ma sicuramente non facile per una squadra che ha dimostrato, nonostante la forte intesa, di avere molto lavoro da fare. Ma questo è l'anno buono: se lo sentono tutti, coach e giocatori, bambini che prendono la partecipazione allo sport come un lavoro, con una serietà sincera e mai così ossessiva da risultare pericolosa. Le tre regole sono uguali: divertirsi, divertirsi e divertirsi. Ma lo sguardo del regista Rudy Valdez riesce a raccontare molto di più. Perché, oltre al gioco e al raggiungimento delle vittorie, oltre alla dimensione puramente sportiva ci sono anche le storie dei genitori, capaci di fare sacrifici ma fieri di quello che i loro figli stanno imparando e stanno diventando; ci sono le storie degli allenatori stessi, alcuni con un passato da superare e da esorcizzare; e ci sono anche le storie dei singoli giocatori, bambini che a 9 anni sembrano scendere in campo spinti da una vocazione che viene dalla nascita. Tra risate e delusioni, tra ostacoli e traguardi, la storia raccontata in queste quattro puntate è capace di risultare appassionante e mai stancante.
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Tra documentario e racconto
Spesso si pensa al documentario come a un genere troppo serio, che richiede una certa dose di attenzione da parte dello spettatore che si deve interessare all'argomento e deve trarne un qualche insegnamento. We are the Brooklyn Saints non cade in questo tranello e il merito è soprattutto del regista e dell'approccio scelto. Lo sport qui non è l'elemento predominante, non si vuole documentare una cronaca della squadra, ma si vuole sottolineare come il football sia una scusa per creare una famiglia composta da persone diverse. Le partite che vengono riprese e montate solo attraverso i momenti clou non sono il cuore della serie, ma diventano dei checkpoint per i protagonisti, un momento importante dove dimostrare di aver imparato le lezioni soprattutto umane date dal ritrovo in gruppo, dalla crescita e dal legame di quella che è a tutti gli effetti una comunità. Il risultato è un documentario che ha il sapore di un film di fiction, che sa catturare la celebre "vita colta in flagrante" senza retorica, in maniera schietta, ma allo stesso tempo emozionante. Non si nota la mano di un demiurgo in cabina di regia che sceglie i momenti migliori, che opera un lavoro di selezione per divulgare un messaggio, ma è la vita vera di questi ragazzi di Brooklyn, quello che dicono, il modo in cui si comportano che danno vita a un racconto sincero e unico.
"Siamo ADD"
"Avanti Decisi Decisi": il motto della squadra diventa metafora stessa della miniserie. Attraverso singoli personaggi presi come punti di riferimento dell'opera (il padre di Aiden, D-Lo e l'allenatore Gawuala, i fratelli Kenan e Yeezy, per dirne alcuni) siamo testimoni di crescita e cambiamento, di voglia di rivalsa, di riscatti e di rapporti d'amicizia e di fratellanza. Di giocatori che diventano figli e allenatori che si sentono padri. Di piccoli che vogliono diventare grandi. Non è importante conoscere le regole del football americano o di appassionarsi a quello sport per apprezzare la miniserie. Il modello di riferimento in campo cinematografico potrebbe essere il primo Rocky, la storia di un uomo qualunque che è mosso da un talento e da una passione tale da poter sfidare il campione. Nel vedere questa squadra lo spettatore si sente a bordo campo con loro, pronto a tifare e a sperare che questi "perdenti" possano avere la loro rivincita (e la scelta di seguire le partite con la camera a mano contribuisce a creare una partecipazione attiva). Forse l'unico difetto da riscontrare è in una ripetitività di fondo sulla struttura delle singole puntate e della miniserie intera (un ciclo composto da allenamento, vita privata, partita e così via) e in un finale un po' troppo insistito, ma mentiremmo se dicessimo di non esserci emozionati durante le scene finali. Perché la fortuna di poter far parte di una comunità è quella di poter empatizzare ed essere coinvolti con gli altri. Nella sincerità di queste persone, nella loro volontà di non guardarsi indietro, rialzarsi e guardare avanti (decisi decisi) ritroviamo un po' anche noi stessi.
Conclusioni
A conclusione della nostra recensione di We are the Brooklyn Saints sentiamo di consigliare il documentario di Netflix. La durata esigua (e giusta) di quattro puntate lo rende perfetto per lo spettatore anche meno appassionato di sport. Grazie a persone così vere e sincere e al taglio scelto da Rudy Valdez che si sofferma sulle dinamiche di gruppo evitando la semplice cronaca di risultati sportivi, la miniserie si presenta come un prodotto appassionante e coinvolgente. A tratti costretta a essere un po’ ripetitiva per la natura stessa della storia, We are the Brooklyn Saints non scivola sulla retorica dando la sensazione di aver visto una bella storia assolutamente vera e onesta.
Perché ci piace
- Il taglio scelto dal regista rende il documentario coinvolgente e appassionante, anche a chi non è appassionato di sport.
- I protagonisti e le loro storie riescono a catapultare lo spettatore nel clima di gruppo della squadra.
Cosa non va
- Di base c’è una struttura un po’ ripetitiva che a lungo andare mostra un po’ il fianco.