Il mondo è cambiato perché tu sei fatto d'avorio e d'oro. La linea delle tue labbra riscrive la storia.
"I want to be a pop idol!", dichiara con orgoglio un giovanissimo Oscar Wilde, interrogato su quale sarà il suo futuro, nel prologo di Velvet Goldmine. A un secolo di distanza, gli impulsi celati sotto la patina di rigore dell'età vittoriana si sono trasformati nei fermenti alla radice di un'autentica rivoluzione culturale, in cui al tramonto dell'ideologia hippie fa seguito l'insorgere di una nuova, dirompente sensibilità: è la genesi del glam rock, con il suo inedito connubio fra musica, spettacolo e sessualità. Un connubio che, nel film di Todd Haynes, assume la maschera scintillante e perversa di Maxwell Demon, alter ego della star emergente Brian Slade: una figura dal fascino androgino che, all'alba degli anni Settanta, semina scandalo fra le platee britanniche, imponendosi al contempo come l'irresistibile idolo di legioni di outsider desiderosi di sentirsi parte di una comunità e di reclamare il proprio posto nel mondo.
Il dandy che cadde sulla Terra
Se quest'assunto narrativo suona familiare, non c'è da stupirsi: la parabola di Brian Slade, fulcro della trama di Velvet Goldmine, è ricalcata sull'ascesa dell'icona glam per antonomasia, David Bowie; così come Maxwell Demon, il suo personaggio futuristico dagli scintillanti costumi (disegnati da Sandy Powell e ricompensati con la candidatura all'Oscar), rievoca Ziggy Stardust, il messia extraterrestre a cui Bowie avrebbe dato vita fra il 1972 e il 1973, fino a quel leggendario "ultimo spettacolo" del 3 luglio 1973 allo Hammersmith Odeon di Londra. Velvet Goldmine, in effetti, può essere considerato di gran lunga la migliore biografia di David Bowie mai realizzata per il grande schermo, sebbene la finzione prevalga sulla ricostruzione storica: in primo luogo per esigenze legali (Bowie non avrebbe concesso il proprio beneplacito), ma soprattutto perché il film di Todd Haynes adopera la storia di Bowie come strumento per tracciare l'affresco di una generazione e di un'epoca.
Se lo Ziggy Stardust bowiano giungeva dallo spazio per diffondere il suo messaggio di amore e anticonformismo, dallo spazio arriva anche Oscar Wilde, che nella prima scena della pellicola viene trovato, in fasce, alla porta di una famiglia irlandese, accanto a una luminosa spilla verde. Cento anni dopo, l'eredità dello scrittore dandy sarà raccolta dal piccolo Jack Fairy: un personaggio dal nome "parlante" (fairy si può tradurre come "fatato", "leggiadro", ma anche "checca"), folgorato da un divo del palcoscenico en travesti (breve ruolo affidato al grande Lindsay Kemp, maestro del mimo e mentore di Bowie) e destinato, da adulto, ad assurgere a nume tutelare dell'estetica glam. Jack Fairy contribuirà pertanto alla metamorfosi di Brian Slade da sconosciuto folk-singer fuori tempo massimo a pioniere di un nuovo genere musicale imperniato sulla teatralità, l'eccesso e le suggestioni omoerotiche, sempre sulla base del percorso artistico di David Bowie nel passaggio dagli esordi al glorioso periodo di Hunky Dory e The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars.
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La storia di David Bowie riletta da Todd Haynes
Del resto, la musica degli anni Settanta e il suo immaginario divistico hanno influenzato il cinema di Todd Haynes fin dal suo mediometraggio sperimentale del 1997, Superstar - The Karen Carpenter Story, in cui la vita di Karen Carpenter era raccontata utilizzando delle bambole (un espediente a cui Haynes riserverà una citazione proprio in una scena di Velvet Goldmine). Tra gli ideali fondatori del cosiddetto New Queer Cinema con il suo lungometraggio d'esordio del 1991, Poison, dopo aver firmato nel 1995 l'incubo suburbano Safe, nel 1998 il regista e sceneggiatore di Los Angeles presenta in concorso al Festival di Cannes un'opera assai più ambiziosa, sebbene l'unico richiamo esplicito a Bowie rimanga nel titolo (un'oscura traccia incisa nel 1971 e pubblicata quattro anni più tardi come B-side di una riedizione di Space Oddity). Velvet Goldmine approda nelle sale britanniche il 23 ottobre 1998 e un paio di settimane dopo negli Stati Uniti, guadagnandosi solo in seguito lo statuto di cult movie.
Presumibilmente troppo estremo per poter attrarre la meritata attenzione in un'ottica mainstream, Velvet Goldmine sposa appieno la sensibilità di quel mondo che descrive con un trasporto e una passione accompagnati però della necessaria lucidità. "La mia scommessa con me stesso", avrebbe commentato Todd Haynes, "era di provare ad applicare a un contesto narrativo gran parte del linguaggio che identificavo nella mia musica glam rock preferita, che in pratica significava rinunciare a un approccio naturalistico ed elevare questo concetto di finzione e artificio". Da qui pertanto gli inserti surreali, fiabeschi o fantascientifici che corredano il film, con una libertà creativa perfino superiore a quella dell'altro grande 'falso' biopic musicale diretto da Haynes nel 2007, Io non sono qui, nonché la scelta di scandire la vicenda con i videoclip delle canzoni di Brian Slade (Hot One, Ballad of Maxwell Demon, Tumbling Down), volti a mettere in mostra il gusto barocco e l'erotismo sfacciatamente ambiguo della giovane rockstar.
Rock 'n' roll suicide
Ma l'approccio postmoderno di Haynes è applicato a una struttura drammaturgica il cui modello risale a più di mezzo secolo prima: quello del capolavoro di Orson Welles Quarto potere, di cui Velvet Goldmine recupera la dimensione di film d'inchiesta volta a illustrare l'esistenza di un protagonista larger than life tra ascesa e declino. Da qui l'adesione dello spettatore alla prospettiva di Arthur Stuart, interpretato da Christian Bale: un giornalista britannico che nella New York del 1984 riceve l'incarico di scrivere un reportage sulla misteriosa sorte di Brian Slade, inghiottito nell'oblio da circa un decennio. Arthur si muove nello scenario di un'America plumbea in un'annata dal valore emblematico: il 1984 si ricollega al romanzo distopico di George Orwell (fonte d'ispirazione di David Bowie per l'album Diamond Dogs), ma pure alla rielezione di Ronald Reagan, in un clima di conservatorismo e nel pieno dell'epidemia dell'AIDS. In sostanza, una pietra tombale sullo spirito di quell'entusiasmante passato a cui Arthur tenta di riaccostarsi con un amalgama di nostalgia e di rammarico.
Perché la storia professionale di Brian Slade è, giocoforza, anche e soprattutto la storia personale di Arthur: un ventenne omosessuale che, nell'Inghilterra dei primi anni Settanta, indossa abiti colorati e succinti di nascosto dai genitori, contempla galvanizzato l'esibizione di Slade in TV (sulla falsariga del Bowie di Starman a Top of the Pops) e la sua posa languida sulla copertina di un disco che lo ritrae seminudo, e si masturba sulle foto di quel cantante in grado, come per incanto, di farlo sentire meno solo. È il motivo per cui Velvet Goldmine travalica le convenzioni delle biografie rock e, al di là dei codici del roman à clef, sprigiona una straordinaria forza emotiva: perché la parabola di Slade, tra ossessione per la fama e cupio dissolvi, è inscindibile dal coming of age di Arthur, che nelle gioiose trasgressioni del glam rock aveva trovato la propria ancora di salvezza, salvo poi assistere al crepuscolo di quel mondo. Un crepuscolo che si materializza nel fittizio omicidio di Brian Slade sul palco: un sensazionale coup de théâtre dall'esito autodistruttivo.
Il mistero di Brian Slade
A incarnare la superstar del glam è il ventenne irlandese Jonathan Rhys Meyers, artefice di una performance in cui il carisma divistico di Slade è contaminato da una sensualità conturbante e da una sotterranea vena di inquietudine. Il Brian Slade di Jonathan Rhys Meyers è, letteralmente, il mistero al cuore del film: un mistero che Arthur tenterà di risolvere rivolgendosi al suo primo manager, Cecil (Michael Feast), presto rimpiazzato dallo spregiudicato Jerry Devine (Eddie Izzard); alla sua ex-moglie Mandy (Toni Collette), sacrificata sull'altare del successo; e al Curt Wild di Ewan McGregor, partner musicale e oggetto del desiderio di Slade. Altra figura dal nome emblematico (fra Kurt Cobain e Oscar Wilde), Curt Wild irrompe nel racconto con una furia dionisiaca degna di Iggy Pop, dimenandosi sul palco e denudandosi davanti al pubblico; per lui si accendono gli occhi a cuoricino di Slade, e con lui Arthur trascorrerà una notte d'amore sul tetto del teatro che ha appena celebrato l'addio al glam nel ricordo delle sue icone.
Corredato da una colonna sonora che mescola un campionario di classici d'epoca (Needle in the Camel's Eye di Brian Eno, Cosmic Dancer dei T. Rex, Virginia Plain e Diamond Meadows dei Roxy Music, Satellite of Love di Lou Reed) a rivisitazioni contemporanee (due cover dei Roxy Music con la voce di Thom Yorke, We Are the Boyz dei Pulp, 20th Century Boy dei T. Rex in una versione dei Placebo e Gimme Danger di Iggy Pop cantata da Ewan McGregor), fino alla trascinante Make Me Smile (Come Up and See Me) di Steve Harley sui titoli di coda, Velvet Goldmine è un'opera in cui la frenesia dell'adolescenza convive accanto alla malinconia dell'età adulta, e in cui l'amarezza delle disillusioni (Brian Slade sarà obliterato dalla patinata popstar Tommy Stone, alfiere del conservatorismo imperante) non riesce a cancellare del tutto la magia del passato. "Eravamo partiti per cambiare il mondo e abbiamo cambiato solo noi stessi", è il rimpianto di Curt, nel suo ultimo incontro con Arthur; "Perché, Curt, cosa c'è di male?"; "Niente... a patto di non guardare il mondo".