Dopo l'uscita nel 2017 del podcast Veleno, ed in seguito del libro omonimo, entrambi per mano di Pablo Trincia, il caso dei "Diavoli della Bassa modenese" è tornato al centro di una tempesta mediatica. Il lavoro di Tricia ha portato nuova luce su un caso di cui non si parlava da decenni: ma che cosa accadde tra il 1997 e 1998 a Mirandola e Massa Finalese? Un gruppo di abitanti di questi due paesini del modenese vennero accusati, dai loro stessi figli, di essere i membri di una setta di pedofili e satanisti. La denuncia di una serie di fatti assurdi e sconvolgenti (riti, uccisioni di animali e neonati, violenze di ogni tipo) partì dal piccolo Dario, ma fu poi avvallata da numerosi suoi coetanei (16 in totale), e portò all'intervento delle autorità e all'allontanamento definitivo dei bambini dalle loro famiglie. Col tempo, però, i numerosi processi dimostrarono che non ci furono riti satanici e che, tantomeno, venne compiuto alcun tipo di omicidio, come invece dichiarato dai bambini in più e più occasioni. Ma come si spiegano quindi le accuse delle vittime? È probabile, come ipotizzato durante la vicenda giudiziaria ma anche da Trincia nella sua inchiesta, che le tecniche di interrogatorio sui bambini messe in atto dagli assistenti sociali e dalle psicologhe li portarono a credere in una serie di falsi ricordi.
A quattro anni dall'arrivo del podcast Veleno, arriva su Prime Video una docuserie dallo stesso titolo che, prendendo il via dal lavoro di Trincia e della sua collaboratrice Alessia Rafanelli, racconta la vicenda ma anche la genesi del progetto, cercando di esplorare anche quanto accaduto dopo la pubblicazione del podcast e del libro. Abbiamo incontrato telefonicamente il regista di questa nuova versione di Veleno, Hugo Berkeley, e il produttore Ettore Paternò, che ci hanno raccontato come è nata la loro docuserie e le difficoltà che hanno incontrato durante il percorso percorso.
La nascita della docuserie Veleno
Come vi siete approcciati a questo fatto di cronaca, conoscevate già il podcast di Pablo Trincia?
Hugo Berkeley: Quando mi hanno chiesto di essere il regista di Veleno ho ascoltato il podcast, l'ho sentito tutto in due giorni. Una storia incredibile, che ha avuto su di me un fortissimo impatto, soprattutto visto che sono padre. È stato incredibilmente angosciante ascoltare le testimonianze dei bambini. Potendolo ascoltare tutto insieme, non settimanalmente, puntata per puntata, come è stato pubblicato, è stata un'esperienza ancora più impressionante. Poi ho letto il libro e sono riuscito ad approfondire certi elementi che mi interessavano. Infine mi sono recato in Emilia per incontrare le persone in prima persona.
Ettore Paternò: Per me è nato tutto nell'autunno del 2018, doveva ancora uscire la puntata speciale. Io stavo facendo un lungo viaggio in macchina e mi sono tuffato nell'ascolto. Stavo cercando delle idee per fare una docuserie e ascoltando il lavoro di Pablo Trincia sono rimasto folgorato. Mi sono detto: deve essere questo! Quando ho approcciato Pablo stava per mettersi a scrivere il libro e ci è voluto tantissimo per convincerlo, era saturo di questa storia, non voleva più sentirne parlare, voleva voltare pagina. L'accordo che abbiamo raggiunto è che lui non partecipasse alla docuserie in qualità di autore, che fosse un lavoro che avrebbero portato avanti altri. Poi ho cercato il regista giusto, con Hugo è nato un sodalizio, e quindi abbiamo fatto i primi sopralluoghi.
Che cosa aggiunge il documentario a quanto già detto da podcast e libro?
Hugo Berkeley: Si tratta di format diversi, il nostro è un racconto visivo. Abbiamo avuto delle possibilità che Pablo non aveva, per esempio quella di mostrare le testimonianze dei bambini attraverso i filmati delle VHS che abbiamo trovato, gli incontri con le psicologhe per me sono importantissimi. Nel nostro caso hanno fanno veramente parte del racconto, abbiamo potuto anche fare le ricostruzioni delle testimonianze, abbiamo creato una narrativa particolare. Il documentario permette un impatto sul pubblico molto diverso rispetto al solo ascolto o alla sola lettura. Nei filmati i bambini raccontavano cose atroci e abbiamo potuto analizzare come si muovevano, i loro sguardi, per me questo è molto importante. Inoltre, siamo stati molto fortunati perché non abbiamo fatto il difficile lavoro di ricostruzione e ricerca che ha fatto Pablo, noi eravamo lì per un lavoro di seconda battuta, siamo però riusciti ad integrare anche altre voci, quelle che si erano rifiutate di parlare nel podcast. Abbiamo incluso anche l'accusa, la parte colpevolista, in particolare la voce di Valeria Donati.
Ettore Paternò: Il documentario è un altro mezzo, quello televisivo e visivo ha un target diverso, si rivolge ad altre persone. Di per sé il nostro è stato un processo di adattamento molto innovativo, un podcast che diventa un libro, un libro che diventa una docuserie. Spesso succede il contrario. Non è stato un adattamento pedissequo di quanto ha fatto Pablo, abbiamo cercato di andare oltre, anche a livello di personaggi e punti di vista. Volevamo lasciare lo spettatore con una domanda: "_Hai visto la nostra serie, ed ora cosa ne pensi?" Il lavoro di Pablo, ovviamente e giustamente, è molto più di inchiesta, è il lavoro di un giornalista. Non è una critica, sono solo linguaggi diversi. Pablo ha cercato una verità, noi invece non volevamo imporre una verità a priori e dimostrarla con le immagini, volevamo fare proprio il contrario.
Un gran numero di testimonianze
Come siete riusciti a convincere Valeria Donati a partecipare, visto che si era rifiutata di parlare con Trincia?
Hugo Berkeley: Non tutte le persone che volevamo intervistare hanno accettato, molte hanno rifiutato, abbiamo creato una rete abbastanza larga per parlare con tutti. Siamo stati molto fortunati che lei abbia accettato. Da un lato volevamo prendere un po' di distanza editoriale da quanto detto su di lei durante il podcast, non potevamo fare la stessa cosa fatta da Trincia. Avevamo l'interesse nell'ascoltare tutti i lati della vicenda e dare spazio allo spettatore di fare la sua scelta, questo era ciò che ci eravamo ripromessi di fare. Abbiamo detto che eravamo lì per ascoltare, per dargli lo spazio che voleva, senza alcun tipo di pregiudizio. Volevamo rispettare le diverse prese di posizione senza dare più peso ad una sull'altra. C'è voluto molto tempo, ci siamo incontrati con le persone in più e più occasioni.
Ettore Paternò: Per convincere tutti i rappresentanti dell'"accusa a partecipare ci sono voluti mesi, sono persone che abbiamo contattato molto tempo prima dell'inizio delle riprese. È stato un lavoro di avvicinamento lunghissimo, passato attraverso incontri, telefonate. Abbiamo dovuto spiegare bene il nostro lavoro, dovevano fidarsi di noi. L'intervista è la fine di un percorso, sono state fatte anche dopo mesi di conoscenza. Le nostre interviste non sono state inquisitorie, gli abbiamo lasciati liberi di raccontare la loro versione.
Durante la produzione di Veleno è scoppiata la vicenda di Bibbiano, come vi siete approcciati al tema?
Hugo Berkeley: Noi non volevamo fare la stessa cosa del podcast, volevamo fare un racconto staccato da quello di Pablo. Il suo lavoro ha creato molto rumore mediatico e quindi volevo che il suo podcast fosse come un personaggio del nostro documentario, volevamo raccontare la sua genesi e il suo sviluppo. Veleno ha creato scompiglio, ha smosso le cose. Mentre stavamo lavorando è venuto fuori il caso di Bibbiano, questo ci è sembrato subito legato a Veleno, abbiamo cercato di capire meglio i collegamenti, abbiamo voluto raccontare lo scontro tra Foti e Trincia. L'idea era parlare di Bibbiano senza però perdere i Diavoli della Bassa modenese, non volevamo iniziare con una storia poi finire con un'altra, il nostro focus doveva restare quello.
Ettore Paternò: Di Bibbiano nei media se ne è parlato tantissimo ma in modo giornalistico, non come volevamo noi. Ci siamo detti di trovare i collegamenti con Veleno, che era la nostra storia più importante, volevamo poi far vedere quella storia attraverso gli occhi dei nostri protagonisti, anche attraverso quelli di Pablo. Volevamo evidenziare l'impatto che Bibbiano ha avuto sulla storia principale, che per noi è quella dei Diavoli della Bassa modenese. Non potevamo comunque pensare di raggiungere lo stesso livello di ricerca che avevamo con il nostro caso.
Il futuro di questa storia
Quali sono state le difficoltà maggiori che avete affrontato durante la produzione di questa docuserie?
Hugo Berkeley: Sicuramente l'imprevisto maggiore è stato quello del Covid. Abbiamo iniziato a girare a febbraio 2020 e avremmo dovuto finire dopo solo tre settimane, invece abbiamo dovuto interromper tutto perché l'Emilia è diventata zona rossa. Questo è stato molto difficile da gestire, eravamo tante persone che dovevano entrare in case diverse, ma alla fine siamo stati molto fortunati, siamo riusciti a fare tutto, terminando in estate. Un'altra grande difficoltà è stata convincere le persone a fidarsi, a creare un legame con noi. A livello di montaggio la grande sfida è stata invece lavorare in un terreno così combattuto, ci sono persone che ogni singola scena la vedevano in modo opposto. Per esempio quando Lorena Morselli arriva al commissariato con i figli, li abbiamo la sua testimonianza e quella di Valeria Donati, che vedono e descrivono le stesse cose in maniera completamente opposta. La Donati ci ha detto che Lorena era arrabbiata, al contrario Lorena ci ha raccontati che fu la Donati a scaldarsi fin da subito. Abbiamo messo entrambe le versioni per essere più obiettivi possibile.
Ettore Paternò: Parlando di difficolta non si può decisamente prescindere dal Covid, la pandemia ha cambiato radicalmente i nostri piani, ha rallentato ovviamente tutto. Nella fase di sviluppo non sapevamo se il documentario si sarebbe fatto, il nostro è un prodotto che racconta un tema difficile, è un argomento tostissimo, respingente. Pablo stesso voleva inizialmente farci una docuserie ma ha trovato solo porte in faccia, per quello non era affatto scontato che saremmo riusciti a realizzarlo, a portarlo avanti. Poi sul momento si sono aperte tante nuove linee narrative, come quella del processo a Scotta, dovevamo essere capaci di riadattare il nostro racconto in base a quanto accadeva. Per quanto riguarda il montaggio non è stato facile, avevamo un'enorme quantità di materiale ed è stato difficile creare l'ossatura delle puntate con un certo ordine. Abbiamo cercato di usare magari spezzoni diversi rispetto a quelli di Fabio, che fossero particolarmente significativi, abbiamo cercato il modo giusto di valorizzarli, c'è tantissimo che non abbiamo avuto modo di inserire. Io inizialmente avrei voluto fare addirittura più puntate, poter approfondire di più.
Dopo la pubblicazione di Veleno alcuni dei bambini, ora adulti, si sono riavvicinati ai loro genitori. Che cosa sperate che accada con l'arrivo della docuserie?
Hugo Berkeley: Questa storia non ha fine, forse fra qualche anno ci sarà una sesta, settima puntata. É una storia in continuo sviluppo, ci sono cose che sono successe anche dopo che avevamo finito di girare, ma la nostra storia dovevamo concluderla in qualche modo. Spero che non rinforzerà troppo le polemiche, spero che ci saranno dei riavvicinamenti, anche se certe persone forse non lo faranno mai. Vorrei che con questo documentario si colga la sofferenza che entrambe le parti hanno vissuto e stanno vivendo. Vorrei che si creasse un ponte, un dialogo tra le parti.
Ettore Paternò: Spero che queste persone ritrovino una certa serenità, a prescindere dalla verità la loro sofferenza è stata devastante. I riavvicinamenti tra genitori e figli sono complicati, sono differenti caso per caso. Io spero solo che, magari anche dopo la visione della serie, possano trovare un qualche tipo di serenità.