Una storia dimenticata, o forse rimossa
Altro che Dan Brown. A voler spulciare seriamente negli archivi, nelle cronache medievali, nel groviglio di testimonianze scritte e orali che rimandano alla storia della Chiesa nei cosiddetti "Secoli bui", una pletora di scrittori, cineasti, produttori si sorprenderebbe di fronte al così vasto repertorio di eventi emblematici, cui non sarebbe affatto impensabile attingere. Magari per opere di un certo spessore polemico. Tra gli episodi che la cultura cattolica, a lungo depositaria di una ufficialità del sapere funzionale ai propri interessi, è riuscita solo in parte a seppellire sotto una fitta coltre di mistero, la storia della Papessa Giovanna occupa una posizione di assoluto rilievo. Questa figura semi-leggendaria corrisponde al Papa donna che avrebbe regnato a Roma tra l'853 e l'855 d.C., grazie al travestimento che qualche anno prima le avrebbe già consentito di diventare monaco, col nome di Johannes Anglicus; un nome assunto dalla ragazza in virtù della propria origine britannica. Sulla realtà storica di questo controverso personaggio gli storici ancora dibattono. Ma la scrittrice americana Donna Woolfolk Cross, autrice del romanzo Pope Joan (1996), è pronta a sostenere che la Chiesa abbia fatto di tutto nel corso dei secoli per insabbiare la sua esistenza, senza dubbio scomoda, mentre numerose sarebbero le attestazioni presenti in documenti di diversa matrice, sia ecclesiastica che correlata ad antiche tradizioni popolari. Ed è da tale romanzo storico che ha preso spunto la realizzazione del lungometraggio in questione, La Papessa (Die Päpstin), coproduzione internazionale affidata alla regia del teutonico Sönke Wortmann.
Sarà anche per la durata superiore alle due ore, in qualche modo spossante, ma un film come La Papessa lascia l'amara impressione di una storia interessantissima raccontata però con uno stile prolisso, fin troppo convenzionale nella messa in scena e quindi inferiore alle potenzialità del soggetto. Un'occasione sprecata, potremmo anche dire. In tal senso non può essere taciuto il fatto che, in un primo tentativo di mettere in produzione il lungometraggio, era stato chiamato in causa un vecchio maestro del cinema come Volker Schlöndorff, anch'egli di nazionalità tedesca, il quale con ogni probabilità avrebbe saputo evidenziare diversamente gli aspetti più disturbanti del racconto, indirizzandolo magari verso sponde grottesche o dai contorni stranianti. Il testimone, però, è presto passato nelle mani di un cineasta privo di quel talento, nonché più prevedibile e omologato, quale è a nostro avviso Sönke Wortmann, autore in passato di memorabili "polpettoni"; su tutti Il miracolo di Berna, tronfia e indigesta rievocazione del successo della Germania Ovest (risultato ottenuto, peraltro, in circostanze assai sospette) ai mondiali di calcio del 1954.
Detto questo, al film di Wortmann va riconosciuto innanzitutto un certo scrupolo nelle ricostruzioni ambientali, sia che l'accento si posi sulla crescita di Johanna/Johannes in un villaggio sperduto della Britannia, sia che scenografie arricchite di interventi in digitale provino a descrivere Roma e la corte papale, quali si presentavano nel nono secolo. L'arco temporale coperto dalla pellicola è quindi piuttosto esteso, dovendo rappresentare il periodo tra l'infanzia della protagonista e la sua dipartita, avvenuta proprio nell'Urbe durante una processione religiosa conclusasi in modo drammatico. Costumi appositamente sporcati e invecchiati, location ideali come la chiesa di San Cyriakus a Genrode (usata per rappresentare il Monastero Benedettino di Fulda, dove la nostra eroina ricevette l'educazione ecclesiastica), inquadrature studiate con cura e professionalità, tutto appare coerente per quanto concerne la verosimiglianza storica. Pur forte di ciò, la narrazione stenta incredibilmente a decollare, appiattita dietro un uso scontato della voce fuori campo e dietro altre convenzioni narrative incerte e sbiadite nella loro applicazione.
Il tentativo più interessante rimane quello di prendere l'indomita Johanna quale alfiere di un universo femminile schiacciato da una società patriarcale, incarnata a sua volta dai maschi abietti incontrati lungo il cammino. Ma sia che si tratti delle violenze famigliari imposte dal padre, campagnolo rozzo e dogmatico, sia che salgano in primo piano le viscide congiure orchestrate alla corte dei Papi da insigni uomini di chiesa, le modalità di tali vessazioni appaiono anch'esse stereotipate, più inclini a sfiorare il melodramma (o le asprezze di un racconto di formazione dai toni particolarmente crudi) che a circostanziare degnamente le usanze del tempo, le contraddizioni di una società poco evoluta e improntata a discutibili valori.
Se il travagliato percorso esistenziale della bambina ribelle che riuscì a farsi proclamare Papa conserva, in parte, un suo appeal cinematografico, molto lo si deve alla bravura e alla drammatica intensità della protagonista Johanna Wokalek, già apprezzata in La banda Baader Meinhof. Allo stesso modo vi sono altri componenti del cast che riescono a lasciare una traccia. Non tanto l'australiano David Wenham (qui nei panni di Gerold, l'amante di Johanna, ma più a suo agio nella trilogia de Il signore degli anelli, dove ricopriva il ruolo di Faramir), quanto piuttosto un attore di formazione teatrale come il britannico Iain Glen (prete del villaggio e al tempo stesso padre padrone dai modi bestiali) e ancor più degli altri il leggendario John Goodman, istrionico al punto giusto nel dar vita al triviale Papa Sergio. La Papessa può esser visto anche quale discreto film di attori, quindi, ma continua ad apparirci troppo poco per un racconto cinematografico che meritava maggior coraggio e che può vantare persino un precedente illustre: La Papessa Giovanna, pellicola diretta nel 1971 da Michael Anderson ed interpretata dalla grandissima Liv Ullmann.