Il 14 febbraio potrebbe segnare un punto di svolta per una delle serie televisive che più hanno catalizzato l'attenzione e gli ascolti degli ultimi tempi. Stiamo parlando ovviamente di Lost, progetto nato quasi casualmente dall'incontro dei produttori della ABC e il creativo e duttile J.J. Abrams e diventato un cult per gli appassionati e un serio pretesto d'indagine comunicativa e strutturale nell'ambiente della costruzione delle serie-tv.
L'intera impalcatura narrativa su cui si basa Lost affonda le proprie radici in uno schema radicato e profondo, e fa dell'interesse nei confronti della serie un passatempo del tutto interessante e da non sottovalutare.
Quel che interessa ai creatori della serie dei naufraghi, quel che c'è di nuovo, è fondamentalmente e semplicemente la creazione di enigmi. E nulla più.
Non importa quando si risolveranno, quale soluzione avranno. Non importa, in fin dei conti, nemmeno il sapere se una spiegazione emerga prima o poi da qualche parte oppure no. Lo spettatore rimane inchiodato dalla curiosità e dalla perplessa inquietudine, saltando così da una puntata all'altra, formandosi un senso complessivo del tutto a partire dal singolo particolare, dalla circoscritta e delimitata attesa per lo sviluppo o la risoluzione di un aspetto piuttosto che dell'altro.
E' già presente, nel fondo della percezione epidermica del pubblico lostiano, la certezza che, con tutta probabilità, gran parte delle sottotrame e dei piccoli enigmi che la bravura di Damon Lindelof ha sparso qua e là non riceverà una risposta.
Così com'è altrettanto - se non più - diffusa la convinzione che, qualunque siano le risposte fondamentale alle varie domande di fondo (il cosa e il perché di tutto quello che accade), non sapranno mantenere le attese che hanno creato.
Dopotutto è inevitabile che, fondandosi tutto il meccanismo sulla creazione di aspettative, il loro sciogliersi, in qualunque modo, non possa che lasciare con l'amaro in bocca, deludendo a prescindere.
Per questo, finchè gli autori hanno costruito gli episodi attingendo alla struttura fondante della serie, lavorando su determinati stilemi e su dinamiche precostituite, semplici, ma le cui varianti sono potenzialmente infinite, la serie si è sviluppata senza alcun momento di stanca.
L'ultimo scorcio della seconda serie, e ancor più il deludente inizio della terza, hanno rappresentato una fase calante nell'impianto generale dell'opera.
Lost è passato infatti da un sottile lavorìo sui sottotesti, sugli stilemi ad esso peculiari, che l'hanno reso quel che è, ad un'evoluzione prettamente psicologico/narrativa. Il fulcro dell'attenzione non è stato più quello misterico/celebrale, ma è spostato il proprio baricentro sul thriller, sulla creazione di una tensione immediata, che s'inscatola nelle direttrici spazio-temporali dell'azione scenica, e che raramente, come è stato per oltre una stagione e mezzo, ne va oltre.
Del tutto improvvida è apparsa dunque la scelta di giocarsi tutte le cartucce (degli ascolti) sui primi sei episodi della terza serie, e far dipendere da quelli il futuro (prossimo e meno) della serie.
Un crollo vertiginoso della tensione è stato provocato da una perdita sintomatica di specificità, da un omologarsi ai moduli narrativi consueti. Di qui il calo d'interesse, la delusione per sei episodi spenti e ripetitivi.
Il 14 febbraio, improvvisamente, è andata in onda Flashes before your eyes, l'ottava puntata della terza serie. E ha segnato un ritorno in grande stile al "vecchio modello Lost", riproponendo e mescolando sapientemente tutta quella serie di elementi che hanno reso la struttura del serial avvincente e narrativamente stratificato.
Se sia solo un caso, o se sia frutto di un cambiamento di rotta, di un riposizionamento della barra su il terreno consolidato eppur mai stancante del mistero di Lost non lo sappiamo.
Ci si augura però che questo sia un nuovo inizio.