Un uomo fuoricampo
Gli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain, questo il tema del nuovo film di Gus Van Sant, presentato nella sezione in concorso del Festival di Cannes 2005. Il regista americano immagina, affidandosi in buona parte alle sue suggestioni e al suo istinto, oltre che alle informazioni avute, il defunto leader dei Nirvana (Blake è il suo nome nel mondo della ricostruzione cinematografica) perso nella confusione e nelle paranoie della sua mente, distrutto da uno stile di vita improprio e circondato da un'umanità indifferente e sciacalla, al limite del surreale.
Van Sant sceglie di mostrare il suo Kurt 'Blake' Cobain con un approccio stilistico (lunghi piani sequenza, fuoricampo e montaggio per salti temporali) molto vicino a come ha trattato il tema Colombine nell'ottimo Elephant, vincitore proprio a Cannes della palma d'oro due anni fa. Molto diverso è purtroppo il risultato. Troppo interessato a mostrare una volta di più il proprio indubbio talento per la narrazione, il regista americano eccede nel suo tentativo di fornire alla pellicola una forza autonoma che prescinda dal soggetto trattato, infognandosi in un autocompiacimento spesso al limite dell'irritante e che nessuno avrebbe mai perdonato ad un regista esordiente.
Se l'idea di sottrarre qualsiasi elemento di spettacolarizzazione allo stereotipo del rocker disagiato e maledetto sulla carta poteva rivelarsi vincente, nella sostanza ci troviamo di fronte ad un film che cade nella stereotipizzazione opposta (l'introspezione minimalista è della peggior specie e raggiunge l'apice nella parentesi animistica finale) e che non si capisce mai dove voglia andare a parare con i suoi viaggi nel bosco, i discorsi sconclusionati e gli pseudovideoclip ripresi in massima profondità di campo attraverso le finestre.
Van Sant con eccellente capacità di vendita di sé stesso ha definito il suo film ostico e poco accessibile, un po' come a volersi giustificare per una certa pedanza visiva o per compiacersi anche di aver il potere di fare un film senza attrattiva commerciale. Un vecchio ricatto morale insito nell'autorialità di un certo cinema che crede sia sufficiente chiedere uno sforzo al pubblico per legittimare la propria opera, ma la realtà dice che quando un film pensa di dire molto non dicendo nulla, è lecito sentirsi presi per i fondelli.