Un Cristo senza passione
Un vero e proprio "caso" cinematografico, forse il più grande degli ultimi anni per le dimensioni della campagna pubblicitaria e mediatica che lo ha preceduto e seguito: questo di fatto è stato, ed è, La passione di Cristo, il già molto discusso "affresco" sulle ultime ore di vita di Gesù Cristo diretto da Mel Gibson. Roventi accuse di antisemitismo da parte dei settori più oltranzisti del mondo ebraico americano, difesa "militante" del film, dall'altra parte, dalle associazioni integraliste cattoliche, malori, decessi (veri o presunti), improvvisate "conversioni" durante le prime proiezioni, il tutto unito a un merchandising di pessimo gusto, inevitabile corollario di un fenomeno che, prima che cinematografico, è stato, appunto, mediatico e di costume.
Ma cos'è, cinematograficamente parlando, questa terza opera da regista di Gibson? Semplice ricostruzione storico-documentaristica, cinema-shock destinato a scuotere le coscienze, o furba operazione commerciale che, sfruttando l'argomento "fede", ha abilmente preparato il terreno alla pioggia di polemiche (e soldi) che vi si sarebbero inevitabilmente riversati sopra?
Il film racconta le ultime dodici ore di vita di Cristo, dall'arresto nell'Orto degli Ulivi alla crocefissione sul Golgota, passando per le accuse dei sommi sacerdoti, il processo dinnanzi a Pilato, la flagellazione e l'interminabile processione verso il luogo del supplizio finale. La ricostruzione fatta da Gibson è letterale, corretta, inappuntabile dal punto di vista storico-politico: ma questo aspetto del film si limita ai primi minuti, mentre il cuore della pellicola, il fulcro della vicenda, è la visualizzazione delle terribili violenze che Gesù dovette subire prima di trovare la sua fine sulla croce. Lo strumento principale che il film usa per giungere al coinvolgimento è proprio questo, dunque: la visualizzazione esplicita del sangue e della sofferenza, il tormento della carne, la pura e semplice enfasi "grafica" sulla crudezza della vicenda narrata. Il film, alla fine, si riduce sostanzialmente a questo, mentre le altre componenti passano in secondo piano, rispetto alla vera e propria odissea gore-religiosa messa in scena da Gibson: i flashback relativi all'Ultima Cena, al salvataggio di Maria Maddalena, e a qualche scena familiare, sono semplici elementi accessori, ben poco funzionali all'essenza del film. Allo stesso modo, pretestuose e poco riuscite appaiono alcune parentesi mistico-horror, con un Satana comunque ben interpretato da un'inedita Rosalinda Celentano. Non c'è nessuna "lettura" personale della vicenda da parte della sceneggiatura, nessun reale approfondimento drammatico dei fatti narrati, nessun tentativo di giungere ad un coinvolgimento emotivo che non passi, ancora una volta, per la rappresentazione grafica (estrema) del tormento e della sofferenza fisica, raggiunta anche attraverso elementi di natura squisitamente enfatico-spettacolare quali il ralenty.
Il protagonista James Caviezel offre una prova difficilmente valutabile, essendo i suoi reali spazi di recitazione ridotti al minimo, con il suo ruolo principale che è quello di un corpo da portare al disfacimento. Buona la prova della già citata Rosalinda Celentano, e discrete quelle di Maia Morgenstern, una Maria abbastanza convincente e adeguata al copione, e di una Monica Bellucci che, nei panni di Maria Maddalena, risulta decisamente più efficace del solito. Funzionali al copione anche le apparizioni di Francesco Cabras e Sergio Rubini nel ruolo dei due ladroni crocefissi insieme al protagonista. Tutto il cast, complessivamente, risponde bene all'inedita sfida rappresentata dalla recitazione in due lingue antiche quali l'aramaico e il latino.
A mente fredda, dopo aver superato lo stordimento visivo-emotivo che il film inevitabilmente provoca, è lecito interrogarsi sul senso di un'operazione del genere. Gibson ha dichiarato di aver voluto rappresentare nella sua cruda realtà una vicenda che troppo spesso, in passato, era stata dipinta con i toni della fiaba: operazione legittima, nessuno lo nega, ma che per un film può essere un punto di partenza, non di arrivo. Qui, invece, sembra essere questa l'unica istanza che tiene vivo il film, e che in qualche modo ne giustifica l'esistenza: al di fuori, c'è solo la riproposizione, asettica e un po' stanca, di una vicenda che era già stata narrata (meglio) tante altre volte. Alla luce di questo, dunque, la domanda torna legittimamente a prendere corpo: ma era proprio necessario?
Movieplayer.it
2.0/5