Con la recensione di Un altro mondo, ultimo titolo (in ordine cronologico) del concorso principale di Venezia 78, si torna in territorio francese, e per l'esattezza in quei territori tanto cari al regista Stéphane Brizé, che era già stato in lizza per il Leone d'Oro nel 2016 con un adattamento di Maupassant e cinque anni dopo è tornato con un racconto più contemporaneo, conclusione di un trittico avviato nel 2015 con il sodale Vincent Lindon, volto di tre diverse storie alle prese con le ingiustizie del mondo del lavoro oggi. Un trittico i cui primi due capitoli sono stati in concorso a Cannes, mentre per la conclusione Brizé ha optato per la laguna veneta (a suo modo un altro mondo come da titolo del film), in attesa di poter raggiungere un pubblico più ampio tramite l'uscita su larga scala nei cinema.
Viale del tramonto
Al centro di Un altro mondo c'è Philippe Lemesle (Lindon), che all'inizio del film è in piena trattativa con la moglie Anne (Sandrine Kiberlain) per i termini del divorzio. Un divorzio causato soprattutto dal lavoro di lui, con responsabilità sempre maggiori che lo hanno portato a essere assente e lasciare a lei l'onere di quasi tutte le faccende domestiche. Philippe è infatti il dirigente di uno degli stabilimenti francesi di una importante multinazionale, e in questo periodo è alle prese con un incarico che piace ben poco ai suoi dipendenti: le alte sfere hanno chiesto dei tagli a livello di personale, in tutti i reparti, e alcuni di questi protestano che rispettare i parametri imposti dai piani alti comporterebbe una diminuzione della qualità del lavoro e metterebbe a rischio la salute dello staff, in particolare coloro che lavorano direttamente nelle fabbriche e potrebbero essere colpiti negativamente da una mancanza di persone a disposizione, dovendo già fare i conti con misure di sicurezza non proprio ottimali e pause dalla durata troppo esigua. Philippe non ne vuole sapere di argomentazioni simili, ritenendole un ricatto emotivo, ma col passare del tempo comincia a interrogarsi sul proprio ruolo in seno all'azienda e all'effetto che questo ha sul suo rapporto con colleghi, dipendenti e famiglia.
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Fine di un percorso
Correva l'anno 2015, e a Cannes veniva presentato in concorso La legge del mercato, che valse a Vincent Lindon il premio per l'interpretazione maschile nei panni di un uomo disoccupato alle prese con un mondo del lavoro che è cambiato in modo drammatico. Tre anni dopo, sempre sulla Croisette, è arrivato In guerra, dove l'attore francese era il portavoce di un gruppo di operai ingiustamente licenziati (e con l'eccezione di lui erano tutti veri protagonisti di una vicenda simile, chiamati a riportare sullo schermo le loro esperienze). E ora, al terzo giro in collaborazione con Stéphane Brizé, è dall'altra parte della barricata, nel ruolo di un uomo che deve effettuare i licenziamenti ed è teoricamente al sicuro per quanto riguarda il posto di lavoro. L'elemento più interessante del trittico è proprio la sua evoluzione, sempre al centro di un'analisi della dignità dei lavoratori ma con volti diversi, sfaccettature differenti di un discorso molto attuale, veicolato con una coerenza etica e umana paragonabile a quella dell'operato di Ken Loach nel Regno Unito. Una coerenza cristallina, che rafforza la non particolarmente originale identità visiva dei tre film, dominati da intensi primi piani di un Lindon sempre più furibondo.
La legge del mercato: l'integrità di un uomo comune
È un peccato, quindi, che proprio come nel film precedente la carica furibonda di Brizé sia parzialmente attenuata quando si discosta dall'ambito professionale e tira in ballo la sfera personale, qui con l'aggravante di aver scritturato un'attrice eccelsa come Sandrine Kiberlain in un ruolo a dir poco ingrato (e poco coerente, perché la storyline del divorzio si perde per strada durante il film). Ma è una pecca minore - anche in termini di minutaggio - all'interno di un'operazione più che dignitosa, che chiude (almeno per ora) un discorso importante e fondamentale sul mondo in cui viviamo, con un connubio per lo più solido tra il cinema impegnato e il dramma umano coinvolgente, incarnato dal volto granitico di Lindon che non smette mai di sorprendere (soprattutto quest'anno, dopo la sua performance sbalorditiva in Titane, Palma d'Oro a Cannes). Forse, da quel punto di vista, il titolo è ingannevole: questo non è un altro mondo in senso stretto, ma uno che conosciamo fin troppo bene.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Un autre monde, conclusione del trittico di Stéphane Brizé sul mondo del lavoro in Francia, parlando ancora di un Vincent Lindon immenso, qui nei panni del dirigente incaricato di licenziare un tot di dipendenti, e la coerenza etica del regista è rimasta intatta.
Perché ci piace
- Vincent Lindon è una garanzia di qualità.
- Il discorso sulla sfera professionale è forte e coinvolgente.
Cosa non va
- Le parti che si concentrano sulla sfera privata sono meno convincenti del resto del film.