M. Night Shyamalan è sempre stato uno di quei registi che ha riflettuto sulla sua società di appartenenza cercando di scandagliarne i momenti collettivi in modo da rielaborarli attraverso un cinema pop e, a seconda dei casi, metterne in discussione sicurezze e credenze o esaltarne paure, timori e ossessioni. La sua filmografia è praticamente costellata di esempi del genere e Trap, a suo modo, non fa eccezione.
C'è però qualcosa che lo ha sempre attratto più del resto, qualcosa che ha costituito un fil rouge della sua carriera perché legato fatalmente alla sua vicenda personale da bambino nato in un Paese diverso da quello della sua famiglia. Qualcosa che nella pellicola con protagonista Josh Hartnett ha raggiunto un suo nuovo culmine: ha trovato quella magica connessione tra dimensione privata e collettiva. La famosa questione identitaria. Essa rappresenta infatti una continuazione di qualcosa a cui il cineasta di origine indiana aveva approcciato con Unbreakable - Il predestinato e poi ripreso con Split e Glass, ovvero la lettura in chiave sci-fi di un sottobosco umano autentico, lontano dalla società del controllo e della comunicazione continua. Come se potessimo mostrarci per ciò che siamo solamente lontano dagli sguardi degli altri.
Qualcosa di celato e quindi ancora più prezioso, qualcosa che rappresenta l'unicità dei personaggi presi in considerazione in un mondo in cui di celato, apparentemente, non c'è più nulla. Si può trovare però un modo con cui indagare ancora l'altro e quindi un po' se stessi, in quanto autori, uomini e, in ultima istanza, padri alla luce del sole? Di questo parla Trap, che nel costruire la sua possibilità si serve della creazione di una falla nel sistema.
Trap: il serial killer e la pop star
Stabilire la differenza tra immagine costruita e identità reale è diventato un esercizio sempre più complesso, dal momento che la vita in mostra è generalmente percepita come sempre più importante per le nuove generazioni. Come siamo e come vogliamo apparire sta divenendo ormai la stessa cosa al punto che in futuro porsi il problema potrebbe divenire addirittura impossibile. Ciò che possiamo dire ora però è questa costruzione ibrida presuppone una iper-attenzione riguardo noi stessi e sempre meno riguardo chi ci sta vicino.
Per dircelo M. Night Shyamalan ambienta Trap in un concerto evento, come potrebbe essere quello di una ipotetica Taylor Swift. Una situazione sociale in cui gli occhi della polizia si sommano a quelli di migliaia di persone che condividono la stessa emozione senza sapere minimamente chi è lì con loro né tanto meno chi stanno adorando e inquadrando con i propri cellulari. Il film ha cura di creare una relazione tra chi è in bella vista, sul palco, in quanto pop star, e il serial killer tra il pubblico, che è colui per la cui cattura è stato di fatto tirato su l'intero baraccone. Loro sono i due osservati speciali.
In una struttura narrativa che quindi esaspera il ruolo dello sguardo e che si basa su un continuo cambio di punti di vista entrambi nascondono qualcosa e infatti entrambi si ritroveranno, in momenti diversi della pellicola, a fare i conti con la trappola che si sono costruiti intorno, anche se per motivi diametralmente opposti. Non a caso uno rifugge qualsiasi forma di exit strategy (tranne quella per fuggire dal palazzone dello sport dove è braccato) per continuare indisturbato ad uccidere, mentre l'altra dà vita ad un cortocircuito scendendo metaforicamente dal piedistallo. Un atto rivoluzionario, una falla, appunto, che condannerà anche il suo dirimpettaio.
I benefici della falla del sistema
I due personaggi non solo sono due parti complementari e utili al fine dell'indagine (rappresentati lo status identitario che riguarda tutti noi), ma sono anche coloro attraverso i quali Shyamalan guarda a se stesso. Non a caso il personaggio di Josh Hartnett è un padre di famiglia, mentre a vestire i panni della star è Saleka, che è una delle figlie reali del regista. Capite bene che a livello metanarrativo è ancora più importante che la rottura nel sistema la compia proprio la ragazza, e che la conseguenza diretta sia lo smascheramento dell'uomo.
Adottando il punto di vista di chi è braccato, la trappola di Shyamalan assume un significato multidimensionale dal momento che essa non si ferma alla semplice incapacità di vedere l'altro, includendo anche quella che ha ognuno di noi di vedere se stesso. La seconda parte del film vede infatti il serial killer lottare per mantenere intatta la sua personalissima distanza tra immagine e identità per continuare a difendersi dall'insopportabile dolore di perdere la sua famiglia, il che presuppone la certificazione che un assassino senza coscienza in realtà provi emozioni e dunque che ci sia una parte di lui che lo assilla e che egli stesso non vuole conoscere. Un'identità nascosta persino a lui.
Nella conclusione Trap sorprende, costringendo il suo protagonista a scavare nella consueta "tana del bianconiglio", un'opportunità gentilmente concessa dal compimento risolutivo di una falla nel suo sistema interno, metafora di quello di chiunque altro, ed è costretto a guardarsi dentro al punto da ammettere di non essersi mai conosciuto. Egli arriva a parlare per la prima volta di se stesso alla moglie, come se, finalmente riuscisse a vedersi per chi è sul serio. Questo processo di denudamento (anche letterale) porterà i suoi benefici nel momento in cui ne uscirà fortificato, consapevole di chi è e ora libero di poterlo essere fino in fondo e alla luce del sole.