Tornare bambini
Un tratto comune all'intera filmografia di Steven Spielberg è quello di farci provare quello stupore, quella paura e quel profondo senso di meraviglia, che si ha solo da bambini.
Anche nei suoi prodotti, per così dire, più seri, non manca mai, di fronte al grande schermo in una sala buia, quella sensazione di essere piccolissimi, indifesi, completamente soggiogati dalle gigantesche immagini che questo grande maestro ci regala.
Per quanto riguarda Jurassic Park, ci troviamo di fronte a un'opera in cui, l'unico modo per sospendere l'incredulità e farci travolgere da questo scoppiettante giocattolone, vuoto di qualsiasi contenuto, è proprio quello di regredire allo stato infantile, di lasciarsi andare, di chiudere per un paio d'ore ogni circuito razionale e accettare tutte le incongruenze, i buchi di sceneggiatura, i non-sense evidenti di alcuni passaggi della trama, come se stessimo assistendo a uno spettacolo di arti magiche particolarmente sofisticato.
Perché Jurassic Park è solo ed esclusivamente questo: una gita allo zoo, per usare le parole di Mario Garriba.
Non mancano alcune tematiche tipiche di Spielberg: il ruolo dei bambini, prima detestati dal protagonista, poi compresi e apprezzati per il loro coraggio, la riflessione sulla paura, sulla fantasia e sul cinema in generale (e, anzi, si potrebbe effettuare una lettura, forse un po'ardita, del film come metafora dello spettacolo cinematografico), ma restano appena abbozzate, e non hanno mai la forza evocativa che si trova in altri film del regista, come E.T., Lo squalo, e anche il sottovalutato Hook - capitan Uncino.
Che cosa resta, quindi, di questo film che, costato la bellezza di 100 miliardi (incassandone più di 2000), ha conquistato il pubblico di mezzo mondo, proprio come, a suo tempo, aveva fatto Lo squalo?
Restano gli incredibili e perfetti effetti speciali, resta l'emozione di vedere i dinosauri muoversi con naturalezza sullo schermo e interagire con gli attori in carne e ossa, resta l'indiscussa maestria di Spielberg nell'utilizzare la macchina da presa, creando atmosfere, attese, improvvisi balzi di tensione e suspence e restano alcune sequenze indimenticabili, una vera gioia per i nostri occhi-bambini.
Il paragone con Lo squalo viene abbastanza naturale. In entrambi i film abbiamo una situazione di estremo pericolo, affrontata da un piccolo gruppo di uomini isolati dal resto del mondo, in entrambi i film, il pericolo deriva da forze della natura scatenatesi contro l'uomo, e alcune tipologie di personaggi sono quasi interscambiabili da un film all'altro (l'avvocato finziatore, come lo sceriffo di Amity, Ian Macolm come Hooper, il personaggio di Sam Neill molto simile a quello di Roy Scheider, etc.). Ed è proprio il paragone col capolavoro spielberghiano del '74 che permette di evidenziare come, in fin dei conti, Jurassic Park sia una specie di occasione sprecata( non di certo per quanto riguarda gli incassi), di sicuro un'opera non del tutto riuscita.
Cerchiamo di comparare gli incipit e la prima parte dei due film.
Sia Lo squalo che Jurassic Park ci mostrano (anzi, sarebbe più esatto scrivere, ci fanno intendere), la pericolosità e la ferocia dei mostri che stiamo per incontrare.
Sia la morte della ragazza in Lo squalo, che quella dell'operaio in Jurassic Park sono narrate fuori campo, tutte e due avvengono sotto gli occhi di testimoni impotenti, e tutte e due dovrebbero essere un'anticipazione di quello che vedremo dopo, quasi una dichiarazione di intenti, su cui si baseranno poi le aspettative dello spettatore.
In Lo squalo, queste aspettative, scatenate dalla prima, fulminante sequenza, non vengono deluse. La prima parte del film, in cui vengono presentati personaggi e situazione, è molto sintetica e scarna e ci permette di arrivare subito al sodo, al duello finale fra uomo e bestia.
La prima parte di Jurassic Park, invece, è lenta, velleitaria nella sua pseudo-scientificità e inutilmente pedagogica.
Verrebbe quasi da dire: "Siamo qui per vedere i dinosauri, porca miseria, che cosa stai aspettando? Perché ci annoi in questo modo?"
Una volta archiviate le spiegazioni scientifiche e dopo averci fatto attraversare il parco dei divertimenti, ammirare i bestioni erbivori e i battibecchi di Sam Neill con i nipotini di Hammond, finalmente possiamo cominciare a divertirci (e Spielberg con noi).
Il primo attacco del T-rex, nel bel mezzo della tempesta tropicale, ai due bambini rinchiusi nelle macchine elettriche bloccate dall'interruzione di corrente, è da brividi.
Capiamo di stare assistendo a un film senza precedenti per le sue qualità tecniche. Ci cattura la perfezione del trucco magico, e l'abilità di Spielberg nel costruire suspence.
Ma, ancora una volta, il confronto con Lo squalo risulta perdente.
Nel film del '74, non erano certo gli effetti speciali a tenere desta la nostra attenzione.
Tutto era incentrato sullo spaventare senza essere costretti a far vedere, data l'esiguità dei mezzi tecnici a disposizione.
Al contrario questo film è costruito sull'ostentazione, sul far vedere tutto e di più, e non potrebbe essere altrimenti, data la qualità meramente effettistica dell'operazione.
Non c'è nulla di male in questo, e Spielberg riesce anche a non far pesare più di tanto la preponderanza schiacciante della forma sui contenuti. Ma, esaurito l'effetto sorpresa, di quel primo, memorabile confronto degli uomini con la natura ribelle, tutto si riduce a un gioco di ripetizioni, in cui la dinamica attesa-attacco, non riesce a suscitare quell'angoscia profonda, quel senso di terrore vero e proprio che pervade Lo squalo dall'inizio alla fine.
Cosa salvare, quindi, di Jurassic Park?
La risposta è semplice: la capacità che ha questo film di essere la realizzazione di un sogno-incubo infantile, la consapevolezza che si tratta di un costosissimo giocattolo, di un divertissement di un grande regista, allora già impegnato in altre, e ben più profonde tematiche (Schindler's List).