The Stand, nuovo adattamento di uno dei romanzi più celebri di Stephen King, L'ombra dello scorpione, firmato da Josh Boone, trasmesso in Italia da Starzplay, si è concluso domenica lasciando l'amaro in bocca tra i fan. I giudizi critici poco entusiastici, ma soprattutto i bassi voti degli spettatori che, su Rotten Tomatoes, bocciano sonoramente lo show con un misero 23% di giudizi positivi sono una chiara spia della delusione generale. E pensare che stavolta le premesse per far bene c'erano tutte: un autore che è un profondo conoscitore nonché un super fan di Stephen King fin dall'adolescenza, un cast cool, un budget notevole elargito da CBS All Access e soprattutto la presenza di Stephen King e del figlio Owen tra gli sceneggiatori, con King in persona autore del nono e ultimo episodio scritto appositamente recuperando il finale dell'Edizione Integrale de L'ombra dello scorpione, pubblicata nel 1990.
Di fronte a scelte discutibili e a una serie che, dopo una buona partenza, si perde per strada man mano che ci si avvicina al pirotecnico finale, tra i nostalgici c'è chi ha rivalutato il primo adattamento de L'ombra dello scorpione, l'omonima miniserie ABC in quattro parti del 1994 diretta da Mick Garris, regista horror che ha alle spalle una lunga storia di adattamenti kinghiani. Suoi sono anche I sonnambuli, la miniserie Shining, Riding the Bullet, Desperation e Mucchio d'ossa. Più ingenua, rudimentale negli effetti speciali (anche se, all'epoca, conquistò due Emmy tra cui quello per il miglior trucco) e in alcune scelte di regia, con punte trash in pieno stile anni '80, ma anche per questo più vicina allo spirito kinghiano e soprattutto, almeno per chi scrive, più coinvolgente ed emozionante. Ma vediamo in dettaglio il confronto tra vecchio e nuovo The Stand per farci un'idea più precisa.
La struttura
L'ombra dello scorpione segue a grandi linee l'andamento del romanzo di Stephen King, esponendo gli eventi in ordine cronologico ed eliminando il superfluo. Comprimere le 1000 pagine del libro di King in sei ore non è una passeggiata, ma i sacrifici fatti da Mick Garris hanno il vantaggio di semplificare una storia che, soprattutto nella prima parte, comprende numerose location e una miriade di personaggi. In più, una certa asciuttezza nei raccordi di montaggio, che potrebbe essere vista come ingenua, controbilancia una certa tendenza del regista californiano all'indulgere nelle spiegazioni piuttosto che affidarsi al potere dell'immagine.
Da questo punto di vista, in The Stand Josh Boone corregge il tiro lavorando più sugli aspetti visivi e concedendosi perfino qualche barocchismo, soprattutto nella seconda parte della serie. Fin dal primo episodio, però, il regista sceglie la via impervia del racconto non lineare. I continui flashback non giovano alla visione confondendo le idee di coloro che non conoscono la storia di Stephen King e disorientando perfino i fedeli lettori. Nel caso di Nick Andros, per esempio, il pubblico lo incontra già al fianco di Mother Abigail e solo nell'episodio successivo sapremo qualcosa in più del passato del giovane sordomuto e del suo incontro con Tom Cullen, gigante buono affetto da un ritardo mentale giunto con lui in Colorado. Per il co-creatore dello show Benjamin Cavell, la scelta della narrazione non lineare è dovuta alla voglia di distinguersi dalla miniserie del 1994, ma anche dal voler tagliar corto con la messa in scena della pandemia per introdurre più velocemente il fulcro della storia, il conflitto tra bene e male. Nonostante le buone intenzioni, la scelta penalizza la serie tanto più che, da un certo punto in poi, anche nella nuova serie i flashback spariscono.
Mick Garris: "Shining? Un grande film di Kubrick, ma un pessimo adattamento di Stephen King"
L'incipit e l'uso della musica
L'inizio de L'ombra dello scorpione è da manuale. Fin dalla citazione di apertura su sfondo nero dei versi de Gli uomini vuoti di T.S. Eliot, seguiti dalla macchina da presa che corre lungo la recinzione della base militare della California del Nord da cui si diffonderà Capitan Trip, la superinfluenza generata da un virus sfuggito da uno dei laboratori del misterioso Progetto Azzurro, per finire col corvo appollaiato sulla recinzione, si respira tensione. La placida quiete del deserto invaso dal sole viene interrotta da un allarme che spinge un guardiano ad abbandonare la sua posizione per prendere di corsa moglie e figlioletto, salire in macchina e lasciare la base prima che il cancello si chiuda sigillando all'interno tutti i militari. In una manciata di minuti l'incipit si conclude e partono le note di Don't Fear the Reaper dei Blue Öyster Cult, mentre l'obiettivo di Mick Garris esplora a ritmo di musica i corridoi del laboratorio di ricerca, la mensa e i corridoi invasi di cadaveri. La memorabile sequenza si conclude col corvo di prima che stavolta si posa per terra accanto a una bambola di pezza caduta dalle mani del figlio della guardia in fuga.
Don't Fear the Reaper, già inserita da Stephen King in apertura de L'ombra dello scorpione, tornerà anche nel finale del quinto episodio di The Stand, ma sarà usata in modo assai meno incisivo accompagnando il ghigno di Harold mentre spia la camera da letto di Fran e Stu dove ha nascosto una webcam. Contentino per i fan? Una parentesi sull'uso della musica. Ci sono almeno un altro paio di celebri brani, ne L'ombra dello scorpione, associati a sequenze epiche o emotivamente coinvolgenti: Don't Dream It's Over dei Crowded House, ascoltato da Fran e Harold dopo che la ragazza ha seppellito in giardino il padre, ucciso da Capitan Trips, e Eve of Desctruction, che Larry Underwood intona con la sua chitarra seduto sul cofano di un'auto nel bel mezzo del nulla (Mick Garris ha svelato che, durante le riprese, Stephen King, Gary Sinise e lui stesso hanno preso in mano le chitarre per accompagnarlo fuori campo, tale era l'atmosfera giocosa e complice sul set). Ricchissima di hit la score di The Stand, ma pur avendo un musicista tra i protagonisti di momenti musicali davvero epici se ne contano pochi.
Veniamo all'incipit del primo episodio di The Stand, intitolato La fine, che si apre con una lunga carrellata aerea su un campo di granoturco al crepuscolo, accompagnata dalla voce narrante di Whoopi Goldberg che parla di "giorni amari all'orizzonte. Morte e terrore, tradimento e lacrime, e non tutti voi li vivrete..." Dopo il titolo, ci ritroviamo a Boulder, Colorado, con uomini in tuta protettiva e maschere antigas che fanno irruzione in una chiesa piena di cadaveri. All'improvviso uno di loro (che poi scopriremo essere Harold) si sente male e corre fuori a vomitare, subito raggiunto da un uomo più anziano che lo rincuora dicendo che non si deve vergognare e che lui stesso non ha mai assistito a niente di simile prima come sette miliardi di persone morte. Josh Boone opta per un inizio in medias res trascinando fin dal subito lo spettatore nel cuore della pandemia.
The Stand, la recensione: quando la pandemia è davvero scritta da Stephen King
Il cast e i personaggi
Stephen King è un maestro nella creazione di personaggi ricchi di spessore umano. Inevitabile, per chiunque si cimenti nell'adattamento di una sua opera, trovare interpreti all'altezza del compito. In entrambe le serie, vecchia e nuova, vengono fatte scelte più o meno felici. Partiamo da Stu Redman, uno dei personaggi più amati del corpus kinghiano. A interpretare l'operaio texano vedovo e di poche parole, ma dotato di grande coraggio e senso pratico, nella versione del 1994 è un Gary Sinise praticamente perfetto. Diligente, ma meno appassionante lo Stu di James Marsden che offre una performance solida, ma senza mai brillare. Il motivo è dovuto in parte alla scelta di Josh Boone di valorizzare la diversità incentrando l'attenzione sulla Fran di Odessa Young, assai più espressiva e duttile di Molly Ringwald che, coi suoi vestitini floreali non proprio adatti a un'atmosfera post-apocalittica, portava con sé il suo bagaglio da 'Bella in rosa anni '80', ma puntata dopo puntata, col deteriorarsi della qualità della narrazione, anche gli occhioni sgranati e la bocca spalancata della Young a simulare stupore, dolore o spavento (a scelta) diventano stucchevoli fino a raggiungere l'apice nel nono e ultimo episodio.
In ottica di diversità, il personaggio del contadino gioviale Ralph si trasforma in Ray, nativa americana interpretata da Irene Bedard; stessa sorte tocca al Giudice Farris (Gabrielle Rose) e al Rat Man di Rick Aviles che, nella nuova versione, è incarnato dall'istrionica Fiona Dourif a cui purtroppo è concesso troppo poco spazio. Da bianco, il cantante Larry Underwood diventa afroamericano. Josh Boone risolve così uno dei sottotemi del romanzo, un bianco criticato perché fa musica nera, affidando il ruolo all'inglese Jovan Adepo che se la cava tenendo testa al predecessore Adam Storke. Il Nick Andros di Rob Lowe, non proprio in parte, cede il passo all'ispanico Henry Zaga, nell'occhio del ciclone per la scelta della produzione di affidare il ruolo di un sordomuto a un attore udente. Tra le poche eccezioni, Glen Bateman resta maschio e bianco, anche se l'ottimo Greg Kinnear (sottoutilizzato nella serie) è più giovane dell'originale Ray Walston, ciliegina di una torta di un cast che, Mother Abigail a parte, era decisamente bianco, specchio della voglia di autorappresentazione dell'America anni '90 bianca e wasp.
E veniamo alle due figure cardine di The Stand, Mother Abigail e Randall Flagg, il bene e il male. Per la sua eletta da Dio, Mick Garris si era affidato alla veterana attivista per i diritti civili Ruby Dee. Se la sua Mother Abigail si distingueva per dignità e devozione, diverso è il discorso per Whoopi Goldberg. Fin dal look, più che una vecchietta devota del Nebraska, la sua Mother Abigail ci appare una hippie impetuosa dalla voce tonante che si fa sì portavoce del divino, ma non manca di dare qualche tirata d'orecchi di propria iniziativa. Nell'universo kinghiano, Randall Flagg è invece l'Uomo in Nero, agente del male. Per l'iconico villain, Mick Garris si affida al poco noto Jamey Sheridan che si materializza nel deserto con parrucca da rockstar, jeans e camperos. Nonostante le discutibili trasformazioni prodotte da effetti speciali rudimentali e maschere in latex, il carisma del villain funziona anche in combinazione coi toni grotteschi scelti da Laura San Giacomo nel ruolo della sua sposa Nadine. Se la Nadine di Amber Heard è uno dei personaggi che funzionano di più nel nuovo The Stand, lo stesso non può dirsi del Randall Flagg di Alexander Skarsgård, svuotato di ogni carisma e mai veramente capace di mettere paura. Un discorso a parte andrebbe fatto sul Pattume di Ezra Miller. Chi ha ancora vivo il ricordo dell'ottimo Matt Frewer dovrebbe preservarlo, visto che Ezra Miller ci regala una delle peggiori performance mai viste.
Stephen King: i 23 migliori film basati sui suoi libri e romanzi
Las Vegas
Nella seconda parte de L'ombra dello scorpione, sono due le città che fungono da catalisi: i buoni si raccolgono a Boulder, Colorado, dove ricostruiscono una parvenza di società, mentre Las Vegas diventa il quartier generale di Randall Flagg e dei suoi scagnozzi. Anche in questo caso, pur mantenendo le caratteristiche della Las Vegas che conosciamo, notturna, volgare e artificiale, la capitale del vizio secondo Mick Garris e secondo Josh Boone presentano alcune sostanziali differenze. Per riassumere, tra la Las Vegas del 1994 e quella del 2021 corrono le stesse differenze che passano tra il Lloyd Henreid di Miguel Ferrer e quello di Nat Wolff.
Per chi non lo sapesse, Lloyd Henreid è un piccolo criminale che Randall Flagg fa uscire di prigione prima che muoia di fame e lo trasforma nel suo braccio destro. Il Lloyd de L'ombra dello scorpione è spietato, ma composto, è feroce, uccide a sangue freddo, ma ha una sua dignità del male e cede alle grazie di una delle spie inviate da Boulder. Nat Wolff ne fa una versione assai più fragile e grottesca, più fuori di testa che crudele, infatti si rifiuta in più occasioni di uccidere, si veste come un dandy ridicolo e urla in modo sguaiato. Così è anche la Las Vegas di The Stand, un immenso girone infernale dantesco perennemente invaso da drag queen, figure pacchiane e musica techno. Assai meno stilizzata, ma più feroce, la Las Vegas degli anni '90 accoglieva i visitatori con i cadaveri crocefissi dei ribelli, la stessa fine che faranno Larry e Ralph nel finale, mentre a Larry e Ray, nel presente, toccherà una sorte altrettanto drammatica, ma meno cruenta.
Stephen King: tutti i film tratti dai suoi libri in arrivo
Il finale
L'ombra dello scorpione si chiude col ritorno di Stu a Bouler e il ricongiungimento alla sua Fran, che nel frattempo ha partorito una bambina. Nel commovente finale, mentre la coppia osserva l'unica culla della nursery occupata dalla loro piccola chiedendosi se le persone possano cambiare, in sovrimpressione compaiono tutti gli amici defunti lungo il cammino a partire da Mother Abigail. Non contento di concludere con un lieto fine più tradizionale, Josh Boone recupera le ultime pagine aggiunte all'Edizione Integrale del 1990 e coinvolge Stephen King nella stesura di un episodio nuovo di zecca, Il cerchio di chiude, in cui Fran e Stu si mettono in viaggio verso il Maine finendo, nel corso del viaggio, per incappare ancora una volta in una versione onirica di Randall Flagg. Una virata allegorica che poco a che vedere con l'atmosfera generale della serie. Qui potete approfondire la spiegazione del finale di The Stand.