Insieme all'affascinante The Hypnosis di Ernst De Greer, C'era una volta in Bhutan di Pawo Choyning Dorji è tra i film in concorso alla Festa del Cinema di Roma premiati con uno dei riconoscimenti speciali della giuria. Il regista di Lunana: Il villaggio alla fine del mondo torna alla scrittura e alla regia di un progetto cinematografico dopo quattro anni di assenza e una difficile pandemia, questa volta per raccontare un episodio tanto caro al suo paese, il Bhutan, regno buddhista dell'Himalaya orientale. Un racconto forte di una poetica cinematografica in grado di muoversi con sensibilità fiabesche tra dramma e commedia, proponendo al grande pubblico una storia vera (per la maggior parte) di equivoci umani e spirituali e di transizioni di governo che ha dell'incredibile. Un titolo piacevole e bilanciato in ogni suo aspetto da cui emerge un grande insegnamento sociale e culturale, soprattutto in termini democratici, senza per questo risultare lezioso o addirittura retorico.
Chiamata alle urne
Sulle splendide note compositive di Frederic Alvarez, il film si apre su un panorama montano immersivo e stupefacente. Il cielo terso, il verde delle alture, i prati immensi sommersi dal tenue rosa dei fiori appena sbocciati. Un paesaggio d'altura che lascia senza fiato, anche se un monaco tibetano lo sta risalendo senza troppa fatica. Porta con sé una bombola di gas ed è diretto all'eremo del suo Lama: la sua fede spirituale è incrollabile e le faccende da sbrigare sono molte. Siamo nel 2006 e il sovrano del Regno del Bhutan ha appena deciso di abdicare per lasciare che il paese si apra definitivamente alla democrazia. Il popolo lo considera quasi un regalo da parte del regnante, nonostante vi siano molti cittadini poco convinti della scelta. Democrazia significa elezioni, cosa non facile in un piccolo regno orientale vissuto da sempre sotto l'egida di una dinastia sovrana.
Il modo più semplice per insegnare al popolo come votare è quello di organizzare delle finte elezioni in tutto il paese, così da impartire i fondamenti democratici base ai cittadini e il modus operandi per esprimere la propria opinione e il loro diritto. In questo contesto dinamico ed effervescente il Lama della piccola cittadina di Ura fa una richiesta molto particolare al suo monaco-faccendiere: procurargli due armi da fuoco. Non importa come, non importa di che tipo: deve solo fargliele avere in tempo per le elezioni, distanti appena cinque giorni. Senza troppe domande e confidando nelle buone intenzioni del Lama, il monaco parte per questa missione durante la quale incrocerà il suo percorso con un uomo bisognoso di soldi, un cittadino americano giunto nel Bhutan per acquistare un reperto storico di grande valore e la funzionaria governativa inviata ad Ura per gestire la simulazione democratica.
Fede e futuro
Appassiona e diverte, C'era una volta in Bhutan, seguendo il tracciato della vera storia con immersione fiabesca e qualche spunto - più di uno - vicino alla commedia degli equivoci. C'è una grammatica dell'immagine delicata e precisa dietro la regia di Dorji, qui alla sua seconda esperienza autoriale e già rodatissimo, forte di una visione cristallina e di un'ideale stilistico che abbraccia popolare e indipendente, eleganza e commerciale, spostandosi senza troppe soluzioni di continuità da oriente a occidente e inglobando ispirazioni artistiche più o meno universali. Da unico firmatario della sceneggiatura, l'autore vuole entrare nel vivo della transizione democratica e raccontare i paradossi (a volte assurdi, altri esilaranti) di un paese per nulla abituato alla scelta e poco aperto al capitalismo. Un territorio del tutto inesplorato dove consegnare il potere direttamente in mano al popolo e successivamente a rappresentanti eletti, dove è soprattutto il senso di responsabilità e dovere civile a farsi forte al di là di ogni dubbio, coadiuvato dall'emozione - unica - di poter affermare la propria voce e dalla curiosità di capire cosa riserverà un futuro tanto diverso.
Questione di fede in chiave politica e spirituale, considerando poi l'utilizzo effettivo delle armi richieste dal Lama. Ma è interessante anche il modo in cui C'era una volta in Bhutan parli un linguaggio simile al bellissimo C'è ancora domani di Paola Cortellesi (qui la nostra recensione), seppure in forma differente, con scopi e tempi dissimili. Il punto d'incontro è nel valore di una voce, nell'espressione democraticamente riconosciuta del poter scegliere il proprio deputato e portavoce preferito, dando appoggio a quelle battaglie (sociali, umanitarie o economiche che siano) che sono anche le nostre, in cui crediamo e per cui possiamo lottare - a volte - mettendo solo una croce su di un foglio. E da lì poter iniziare a sperare in un futuro più radioso, seppellendo magari le più crudeli divergenze e aprendoci faticosamente ma con fiducia al domani. Il monaco è una metafora. Le armi pure. Quello che resta è un paese, i suoi abitanti e la volontà di migliorare un giorno dopo l'altro, credendo in ciò che verrà.
Conclusioni
In conclusione, The Monk and the Gun racconta la vera storia della transizione democratica del Bhutan tra commedia degli equivoci e dramma popolare, riflettendo sul grande valore d'espressione politica e sulle difficoltà (e i paradossi) del cambiamento con ironia e profondità, con slanciato stile autoriale e indipendente - orientale - ma senza dimenticare le grandi citazioni commerciali d'occidente.
Perché ci piace
- La regia di Pawo Choyning Dorji.
- Le interpretazioni corali del cast.
- Le musiche di Frederic Alvarez.
- Il messaggio del film e la vera storia del Bhutan.
Cosa non va
- Perde un po' la strada nel corso del secondo atto.
- Non sempre convincente sul piano prettamente tecnico.