Le mie prigioni è il titolo di un libro di memorie di Silvio Pellico. Potrebbe essere il titolo adatto a un libro o un documentario che raccontasse il backstage di The Informer, il film di Andrea Di Stefano in uscita in Italia il 17 ottobre (negli States uscirà a gennaio 2020), un film che Movieplayer vi consiglia caldamente di vedere. Come vi abbiamo raccontato nella nostra recensione di The Informer, tratto dal romanzo Three Seconds di Anders Roslund e Börge Hellström, è un noir, un gangster movie e un dramma carcerario: è la storia di uno spacciatore di droga (Joel Kinnaman) affiliato alla mafia polacca a New York che è diventato un informatore dell'FBI.
Andrea Di Stefano, reduce dal successo di Escobar: Paradise Lost, ha girato un film adrenalinico e vibrante. La chiave è stata la grande ricerca di realismo: ha passato tre giorni in una prigione a nord di New York, Sing Sing, ha parlato con agenti dell'FBI e della DEA e ha incontrato un informatore ucraino. Entrato in corsa in un progetto che, nella sua prima versione, doveva avere come protagonista Josh Brolin, ha adattato più volte la sceneggiatura, fino ad arrivare a 17 stesure: l'ingresso di attrici come Rosamund Pike e Ana De Armas, ad esempio, ha richiesto la riscrittura dei loro personaggi. E, anche dopo il sopralluogo a Sing Sing, Di Stefano ha rimesso mano allo script per dargli maggiore realismo.
Dentro il carcere, dentro le scene di The Informer
Abbiamo incontrato Andrea Di Stefano a pranzo a Roma la scorsa settimana per questa intervista, un modo molto rilassato di parlare di The Informer - Tre secondi per sopravvivere. E siamo partiti subito dalle scene madri del film, due corpo a corpo e una finta impiccagione che avvengono nel carcere e colpiscono per la violenza e il realismo. "Le scene sono in qualche modo strutturate in sceneggiatura, gli attori sanno che chi le ha scritte ha le idee chiare, e ti dicono: come pensi di girare la scena? E devi essere bravo a rassicurarli che non moriranno per davvero" racconta il regista. "L'unico stunt che avevo nel film, l'unico che potevo pagarmi, è quello della rissa. Quando mi sono trovato a fare un film sui carceri americani sono andato a vedermi tutte le serie televisive che parlavano di prigione. E mi sembravano finte. Ci ho messo un paio di mesi, ma ho contattato Sing Sing e, dopo varie insistenze, mi hanno permesso di visitare il carcere e di vedere dei video di vere risse che succedono in prigione dalla loro tv a circuito chiuso. La scena della prima rissa è stata copiata da una scena vera, compresa la persona che si gira dall'altra parte. È la cosa che mi ha colpito di più. È come se le persone non coinvolte volessero dire: non ho visto niente, non voglio vedere niente".
Proprio durante i sopralluoghi Di Stefano ha scoperto che in quel carcere c'è un problema di sovrappopolazione e quindi mettono dei letti a castello dentro ai campi di basket: la cella dove un detenuto dovrebbe essere protetto così è una palestra dove vivono in duecento. E si corrono grandi rischi. "La scena dell'impiccagione è avvenuta veramente e mi è stata raccontata a Sing Sing: c'era questa persona che, tra virgolette, si era impiccata, in realtà era stato ucciso" racconta Di Stefano. "Volevo capire come dovevo farla e l'unico luogo era quello che mi faceva più paura: era la cappella della prigione, sempre aperta, anche di notte quando sono tutti chiusi in cella. Ho messo insieme questi elementi, ho strutturato le scene, gli attori si sono fidati e l'ho girata".
Se un libro ti salva la vita
Sempre dai racconti appresi in carcere Di Stefano ha preso l'idea di far inserire dei libri intorno alla vita del protagonista, nel momento in cui sa che verrà aggredito. "Quando succedono risse, se sai che ti stanno per attaccare la prima cosa che fai è mettere riviste intorno all'elastico dei pantaloni e dei calzini intorno alle mani, perché con quelle provi a prendere il coltello e i libri non fanno passare la lama" spiega il regista. "Un italoamericano che ha fatto 30 anni di prigione mi ha detto che, quando tieni in ostaggio qualcuno, invece di puntare il solito coltello alla gola, prendi un coltello e lo ficchi dentro l'orecchio perché fa talmente male e mette la persona in uno stato di shock, perché sente la punta vicino al cervello" racconta, riferendosi alla scena del corpo a corpo con il secondino. "Quando me l'ha detto mi ha fatto venire i brividi, ma è completamente logica. È stata molto dura farla approvare dal distributore".
Parlare con l'FBI e con la DEA
Facciamo notare ad Andrea Di Stefano che mostrare fin dalla primissima scena la vita familiare del protagonista fa scattare immediatamente l'empatia. "Mi fa piacere che lo abbiate notato" ci risponde. "Appena ho avuto questo copione ho parlato con un agente della DEA per farmi spiegare cosa succede agli informatori nel momento in cui la polizia deve fare gli arresti. Quello è il momento più critico per loro: il prosecutor non ha ancora finanziato la loro protezione perché non gli è stato ancora portato il caso, e nella notte in cui fanno gli arresti gli informatori non hanno alcuna protezione. E la polizia arresta di solito il 60-70 per cento dei criminali. Quel 30 per cento che rimane fuori, se intuisce chi li ha traditi li va a cercare".
"C'era questo informatore che diceva sempre alla figlia: un giorno andremo a fare un viaggio in campeggio con mamma. E pensava veramente di portarla in un campeggio fuori New York quando sarebbe arrivato il momento degli arresti. Invece è avvenuto tutto nel giro di un'ora. La moglie aveva un salone di parrucchiera e hanno messo la tenda al centro del negozio. Da padre immaginavo l'angoscia che devi avere nell'arrivare alla porta, salutare tua moglie e tua figlia, e non sapere neanche se le rivedrai". "Ci sono casi di persone che finiscono in prigione per motivi futili" aggiunge il regista. "Una volta che entri in prigione devi entrare a far parte di una gang perché altrimenti nessuno ti protegge. E allora entri per tre anni e ne fai venti perché spacci o uccidi qualcuno".
Sfatare i luoghi comuni: FBI contro NYPD e quegli sguardi dei criminali
La storia di The Informer sfata molti luoghi comuni. Uno è quello che l'FBI sia superiore a tutto e tutti. Nel film vediamo che la polizia di New York, l'NYPD, riesce a mettere i bastoni tra le ruote ai federali. "L'FBI a New York è un ospite, hanno un ufficio e hanno gente là" racconta Di Stefano. "La più grande polizia al mondo è la NYPD, sono 35mila agenti, un esercito. In qualche modo tra i due a New York vince l'NYPD. È potentissima per appoggi politici e l'influenza che ha sui politici per essere eletti. Sono inavvicinabili, e anche nel proteggersi tra di loro in caso di corruzione". Un altro luogo comune, quando vediamo i migliori film carcerari, è che c'è sempre quello che ti guarda male. Niente di più falso. "A Sing Sing erano tutti sorridenti" ci racconta il regista. "Se guardi uno così in carcere dicono che hai appena consegnato un wolf ticket, un biglietto da lupo, e lo devi andare a incassare. Se guardo male qualcuno vuol dire che ho provato a metterlo in condizione di inferiorità, l'ho reso attaccabile. Per farmi incassare il mio wolf ticket mi potrà arrivare una coltellata".
Arthur Penn e le lezioni di cinema
Una cosa che ci ha colpito è che Di Stefano dice di non guardare mai film di questo genere, di amare i film di Sergio Leone e Sam Peckimpah, e di aver imparato a fare cinema con poche e brevi lezioni. "Una delle più grandi lezioni di cinema è di Arthur Penn" ci svela. "Mi disse: ti posso insegnare a fare cinema in un pomeriggio, non serve andare a scuola, ti posso spiegare le lenti, i movimenti di macchina. Mi ricordo che mi disse: posso prendere la macchina da presa, farla arrivare sulle nuvole e riportarla giù e andare su un primo piano, ma se quell'attore non ha una scintilla negli occhi non serve a niente. La mdp deve essere l'ago che lega le emozioni". "E io scrivo e giro quello che ho scritto, ma quello che scrivo lo racconto come se lo avessi sognato. E quando vado sul set è come se mettessi in pratica quello che ho già sognato. È come se l'avessi già girata, arrivo sul set senza dubbi". Ma poi ci sono gli attori, che spesso vogliono dire la loro. "Avendo avuto il battesimo con Benicio Del Toro (nel film Escobar, ndr), che è una persona che arriva con molti dubbi sul set, ho imparato a non aver paura di quel tipo di creatività, ho imparato a respirarla e inglobarla. Anche perché l'attore ha una sensibilità immediata rispetto al testo e al materiale che va a raccontare. Per cui bisogna imparare ad ascoltarli. Adoro parlare con gli attori".
Mafia Princess, nuova serie tv con Guaglianone e Menotti
In questo momento Andrea Di Stefano sta scrivendo una nuova serie tv crime, una produzione italiana per Amazon Prime Video, su soggetto di Nicola Guaglianone e Menotti. "È ambientata negli anni Ottanta ed è la storia di una ragazzina che si trova a entrare nel mondo della 'ndrangheta a Milano" ci svela. "Per cui legge questa realtà con la sua esperienza di ragazzina che passa i suoi pomeriggi a guardare serie televisive. In ogni puntata ci sono riferimenti ai Visitors a Fantasy Island, o a La famiglia Addams. Il titolo è Mafia Princess, ma non sarà quello definitivo". Andrea Di Stefano sta già lavorando in Italia, ma il suo sogno è quello di tornare qui stabilmente e fare film su cose che conosce più da vicino. "Mi fa anche paura" ci confida. "Probabilmente, nel fare cinema in lingua italiana non avrei lo stesso pubblico, la stessa apertura. Ma quello è il mio sogno".
Marco Bellocchio, Il traditore e l'Oscar
Visti i suoi inizi da attore nel cinema italiano, con un grande come Marco Bellocchio, gli chiediamo di lui e delle chance de Il traditore nella lunga corsa agli Oscar. "Il traditore potrebbe avere le sue chance, è molto autentico e questo agli americani piace" commenta. "Il suo percorso d'artista è inarrestabile, è ammirevole. Ci sono registi che cadono sul narcisismo e su ambizioni troppo alte. Lui è un vero artista, sa quello che vuole. Non credo in Dio, credo in Marco Bellocchio".