Ritengo che il mondo sia un posto amaro e complicato. E sembra che lui pensi la stessa cosa di me.
Nello sterminato filone dei racconti di ambientazione natalizia, di certo non è un caso che molti fra i migliori titoli esplorino il tema della malinconia e della solitudine suscitate dal clima gioioso delle feste, come una sorta di crudele controcanto da parte di chi non ha ragioni di condividere tale sensazione di felicità. L'esempio paradigmatico, anche a tre quarti di secolo di distanza, resta tutt'oggi La vita è meravigliosa: un apologo sull'importanza che ciascun essere umano può rivestire, perfino a propria insaputa, sulle vite degli altri. Qualcosa di molto simile a quanto narrato da Alexander Payne in The Holdovers - Lezioni di vita, atteso ritorno dietro la macchina da presa del regista e sceneggiatore originario del Nebraska a sei anni di distanza dal deludente Downsizing, singolo passo falso di una carriera fra le più elogiate ed interessanti del cinema americano contemporaneo.
Tra Frank Capra e la New Hollywood
Non stupisce, pertanto, l'analogia tra il profondo umanesimo espresso in The Holdovers e il classico natalizio per antonomasia diretto nel 1946 da Frank Capra; del resto, come scritto nella recensione di Maureen Lee Lanker su Entertainment Weekly, "Se i precedenti film di Payne possedevano il marchio più acido derivante dall'influenza di Billy Wilder, questo film è puro Capra". Ma più che alla Hollywood in bianco e nero della Golden Age, in cui le asperità del dramma sociale erano mitigate dal senso di comunità alla radice dello spirito del New Deal rooseveltiano, The Holdovers si propone come come un'opera intimamente legata alla cultura e alle suggestioni proprie del tempo in cui è ambientata la trama: per la precisione, l'inverno a cavallo fra le vacanze di Natale del 1970 e il Capodanno del 1971, in un New England innevato che, nella fotografia del danese Eigil Bryld, assume le tinte soffuse delle pellicole di cinquant'anni fa.
Ma The Holdovers è tutt'altro che una sterile imitazione dal gusto passatista, e il richiamo a un certo ramo della New Hollywood - nell'approccio drammaturgico, prima ancora che nella ricostruzione d'epoca - è funzionale a una vicenda che, nel ripercorrere una tradizione sospesa appunto tra Frank Capra, Hal Ashby e L'attimo fuggente (ma vi si potrebbe rintracciare addirittura un'eco di Breakfast Club), raggiunge un equilibrio di toni, una geometria narrativa e una densità emotiva assolutamente encomiabili. La vicenda in questione è quella del rapporto fra Paul Hunham, insegnante di storia presso un rinomato ed elitario college maschile del New England, la Barton Academy, e Angus Tully, rampollo intelligente e un po' viziato che, a sorpresa, scopre di essere stato 'abbandonato' dalla madre per le vacanze invernali ed è costretto pertanto a restare fra i cosiddetti holdovers, vale a dire gli studenti trattenuti all'interno del college per l'intero periodo natalizio.
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Il Natale del professor Hunham
Al professor Hunham, misantropo, intransigente e ferocemente ironico, dà vita un magnifico Paul Giamatti, che torna a collaborare con Alexander Payne a quasi vent'anni di distanza da Sideways e che qui sfodera la migliore prova d'attore del suo repertorio, ricompensata con un Golden Globe. Angus, un novello "giovane Holden" i cui impulsi ribellistici nascondono uno strisciante malessere, è affidato invece al ventenne Dominic Sessa, al suo eccellente debutto sullo schermo. Nella dinamica iniziale fra i due protagonisti, imperniata - come prevedibile - su una malcelata insofferenza reciproca, si inserisce a piccoli passi la figura di Mary Lamb, capocuoca dell'accademia: una donna afroamericana colpita dal recente lutto per la morte del figlio Curtis, rimasto ucciso in Vietnam. Mary, interpretata da una formidabile Da'Vine Joy Randolph (premiata con il Golden Globe e indiscussa favorita per l'Oscar come miglior attrice supporter), si trova a stazionare nel college deserto in compagnia di Hunham e Angus, fungendo da mediatrice nei contrasti fra il rigido insegnante e il suo rabbioso allievo.
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Lo script di The Holdovers, firmato dall'autore televisivo David Hemingson (al suo primo copione per il cinema), è basato su un canovaccio ben risaputo: l'imprevista connessione che, gradualmente, si instaura fra due personaggi in apparenza agli antipodi. Ciò nonostante il film non si adagia sulle convenzioni del caso, trasformando piuttosto la sostanziale semplicità del racconto - e gli innumerevoli spunti da commedia - in uno strumento per illustrare la complessità dei protagonisti e del loro universo interiore; e, perfettamente in linea con certe istanze della New Hollywood, per delineare le contraddizioni di una società assai meno egualitaria di quanto vorrebbe sembrare. A partire proprio dal professor Hunham: a prima vista un ingranaggio di questa società, ma in realtà confinato ai margini del microcosmo accademico per l'imparziale severità adottata nel valutare i propri allievi (e 'punito' per aver bocciato il figlio di un facoltoso finanziatore del college).
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Dalla parte degli holdovers
Se il cinema della New Hollywood ha mostrato spesso l'inclinazione a parteggiare per gli outsider, Paul Hunham è a suo modo un 'reietto': viene deriso per il suo strabismo e per l'odore che emana a causa di una patologia fisica, mostra scarsa dimestichezza nelle relazioni sociali e cova una silenziosa ma bruciante frustrazione per una carriera stroncata sul nascere. Hunham sa riconoscere le ingiustizie di cui è permeata la società, perché in parte anch'egli ne è vittima, e contribuirà a infondere tale consapevolezza in Angus e negli altri studenti: quando invita al rispetto per il dolore materno di Mary, spiegando che "per molte persone la vita è come la scala di un pollaio: schifosa e corta" ("shitty and short" in originale); o quando fa riflettere Angus sulla condizione di un veterano che ha perso una mano in una guerra a cui lui e altri ragazzi hanno avuto la fortuna di potersi sottrarre in virtù della loro condizione di privilegiati.
Le differenze sociali, le questioni razziali, il Vietnam, ma pure la messa in discussione di un determinato elitarismo borghese, che tuttavia non ha risparmiato Angus da un senso di sradicamento e di abbandono: come già osservato, in The Holdovers si respirano echi dei film degli anni Settanta di autori quali Milos Forman, Bob Rafelson e soprattutto Hal Ashby, da Harold e Maude (nella soundtrack fa capolino pure Cat Stevens) a L'ultima corvé. E si respira quel desiderio di anticonformismo che non si esaurisce in una vacua disobbedienza alle regole, ma rappresenta un salutare atto di rivalsa contro ipocrisie e storture di un'America in cui, ad alcuni più che ad altri, può capitare di sentirsi fuori posto: gli holdovers, appunto, confinati in un solitario 'esilio' nel periodo più festoso e più triste dell'anno, ma in grado di costruirsi nuovi legami fondati su un'inaspettata empatia, sulla capacità di guardare davvero l'altro e, forse, di imparare ad amarlo.