"You don't own me, I'm not just one of your many toys" "Tu non mi possiedi, non sono solo un altro dei tuoi tanti giocattoli". La recensione del finale di stagione di The Handmaid's Tale 4, la serie con Elisabeth Moss in streaming in anteprima esclusiva su TIMVISION dal 29 aprile, inizia con la canzone di Lesley Gore del 1964. È un'altra ballata soul, uno dei fili conduttori della stagione 4, che arriva alla fine della storia, in un momento chiave. Il finale di stagione di The Handmaid's Tale è duro, scioccante, indelebile, eppure si trova perfettamente lungo l'arco di una parabola, quelle della presa di coscienza di June, che ci porterà, nella stagione 5, che probabilmente sarà l'ultima, alla conclusione di una delle serie più importanti di questi anni. Quel "tu non mi possiedi", che sentiamo come musica extradiegetica, è il grido di battaglia e di libertà di June, e di altre come lei, che siano state un'ancella o una Martha, è l'affrancarsi dal regime totalitario, integralista, maschilista di Gilead. È il grido universale che ogni donna, oggi più che mai, ha il diritto di urlare. Arrivata, con l'episodio 4x10, al suo finale, la quarta stagione di The Handmaid's Tale si conferma una delle migliori, quella, tanto auspicata, in cui il racconto progredisce, si evolve e, insieme alla sua protagonista, fa un decisivo scatto in avanti. Se continua così, nella stagione 5 ne vedremo delle belle.
Combattere Gilead dall'esterno
Raccontarvi la quarta stagione può voler dire, attenzione, incappare in qualche SPOILER. Dopo essere riuscita a scappare insieme a Janine, June (Elisabeth Moss) si è trovata prima libera, in territorio ancora nemico, a Chicago, e ha rischiato di morire sotto un bombardamento. Ma, presa in carico dalle ONG che si occupano dei profughi, è arrivata in Canada. Ha riabbracciato Luke e la figlia neonata, Nicole, e ha cominciato a combattere Gilead dall'esterno. Tutto questo cercando di riavere la sua prima figlia, Anna, e mentre il comandante Fred Waterford (Joseph Fiennes) e Serena (Yvonne Strahovski), in Canada, sono sotto processo per i gravi crimini commessi a Gilead. E non vogliamo assolutamente dirvi di più.
The Handmaid's Tale 4, la recensione: Sentirsi una donna normale... Quando sarà possibile?
Blue Moon, Blue Velvet, Blue Man Group
Se quel "You don't own me" della canzone è un urlo simbolico, in questa quarta stagione di The Handmaid's Tale, una volta libera, June Osborn l'abbiamo sentita gridare eccome. Non dimenticheremo facilmente quel "Do you understand?", "Lo capisci?", gridato in faccia a Serena Joy, durante il loro primo incontro in Canada, in modo che capisca di cosa si siano macchiate lei e il marito. E poi quel "He's a rapist", "è uno stupratore", gridato in faccia all'agente canadese Truello, riferito al comandante Waterford. Fuori da Gilead, fuori dalle sovrastrutture, quelle di un credo religioso completamente travisato in grado di giustificare cose aberranti, le cose si possono chiamare con il loro nome. E sì, il comandante Waterford è uno stupratore. È nell'ultimo episodio che proviamo a entrare nella testa di June a capire che cosa voleva dire venire violentata. Distesa sul letto a pancia in su, non le restava che pensare ad altro. Guardare quel soffitto blu e pensare al blu. Blue Moon, Blue Velvet, Blue Man Group. Provare ad andare altrove con la mente, per sopportare.
Un finale catartico e liberatorio
Guardatela negli occhi, June, in quei primi piani lunghi e intensi che caratterizzano spesso la quarta stagione (alcune puntate sono state dirette dalla stessa Elisabeth Moss, la cui regia è davvero notevole). Ha spesso un sorriso beffardo, sarcastico. Gli occhi a volte sono lucidi, velati da lacrime. O hanno dentro un bagliore, un senso di lucida follia. La stagione 4 ci spiega cosa vuol dire la vita dopo un trauma, che sia una guerra, una violenza, un sopruso di qualsiasi tipo. Non è mai finito, non potrà essere più come prima. E durante tutta la stagione, e in questo finale, abbiamo capito che la June prima di Gilead non tornerà più. Ha delle ferite troppo profonde, che non si possono rimarginare. È una belva ferita che ha bisogno di attaccare. Ha bisogno di vendetta. E, se dentro di noi sappiamo che alcune azioni possono essere sbagliate, quelle che non ci saremmo aspettati fino a poco tempo fa, non possiamo che essere dalla sua parte, sentirci liberati insieme a lei. Il finale di stagione di The Handmaid's Tale è catartico e liberatorio.
The Handmaid's Tale 3x13: la recensione del finale di stagione, Mayday
I just wanna be a woman
"Give me a reason to love you. Give me a reason to be a woman. I just wanna be a woman". Glory Box dei Portishead apre con queste parole l'episodio 8 (che si chiude con Hell Is Round The Corner, di Tricky, un brano gemello). "Dammi una ragione per amarti, dammi una ragione per essere una donna. Voglio solo essere una donna". La stagione 4 è stata anche quella del difficile ritorno alla vita di June. Durante quella canzone la vediamo tagliarsi i capelli, farli più corti, con un taglio più comodo e moderno, un voler decidere da sola come portarli e come vestirsi. Essere una donna, un desiderio semplice e fondamentale per chi, per anni, ha visto svanire qualsiasi diritto. Il ritorno alla vita non è facile. June non riesce a parlare subito con Luke, non riesce a parlare di Anna. Fa l'amore con Luke in modo rabbioso, e lui lo capisce. Tornare ad essere una donna è l'altra, difficile, missione che sta portando avanti June. Anche Glory Box, brano simbolo del trip hop, in fondo è una canzone soul, ma, come è funzionale al racconto dell'ancella, è sporcata da nebbie, fumi, fruscii. Perché c'è molta nebbia nella vita di chi riprende dopo aver subito tanta violenza.
Non solo a Gilead, ma nella nostra vita di tutti i giorni
Ma c'è ancora una cosa che ci ha fatto riflettere molto in questa quarta stagione. È qualcosa che accade nell'episodio 5, Chicago. June e Janine sono appena scappate dai propri aguzzini a Gilead e sono capitate in un nuovo mondo. Chicago è ancora in guerra, è una città devastata e sotto attacco da Gilead. Ma, in teoria, è ancora il mondo normale, nel senso che non è controllata dalle assurde leggi di Gilead. E allora accade che June e Janine, entrate a contatto con la resistenza che si oppone al regime, chiedono degli abiti e del cibo. Da chi è in capo in quel momento, si sentono dire che devono dare qualcosa in cambio. E vi lasciamo immaginare cosa. "Tanto l'hai già fatto. Sei abituata" dice a June il suo interlocutore. Un uomo. Ecco, in quel momento non siamo a Gilead, siamo in fondo nel nostro mondo. E quel momento ci ricorda che la violenza, l'abuso di potere, le molestie non sono solo a Gilead, non sono in un mondo immaginario. Sono qui, ogni giorno, nelle vite di molte, troppe donne. L'importanza di una serie come The Handmaid's Tale, nell'era che stiamo vivendo, è di dire queste cose forte e chiaro.
Conclusioni
Arrivati alla fine della recensione del finale di stagione di The Handmaid's Tale 4, ribadiamo che la quarta stagione si conferma una delle migliori, quella, tanto auspicata, in cui il racconto progredisce e si evolve, insieme alla sua protagonista. Ma ci ricorda che le violenze non sono solo a Gilead: sono qui, ogni giorno, nelle vite di molte, troppe donne. L'importanza di The Handmaid's Tale è di dire queste cose forte e chiaro.
Perché ci piace
- Tratto dal classico di Margaret Atwood, lo show di Hulu è un'opera coraggiosa, illuminante e tempestiva.
- L'incredibile tour de force fisico ed emotivo a cui si è sottoposta Elisabeth Moss.
- L'accostamento tra la nostra contemporaneità e gli orrori di Gilead è davvero produttivo.
- La capacità di non ridurre alla prospettiva della protagonista una storia che illustra le conseguenze del totalitarismo sull'intera società.
Cosa non va
- Una parola sola: angoscia.