"Solo perché qualche altro giornale usa le notizie di gossip in prima pagina non significa che dobbiamo farlo anche noi." "Invece sì. Da adesso sì."
Dal suo apprezzato debutto nel 2005, con Thank You for Smoking, il canadese Jason Reitman si è imposto come uno dei giovani autori più dotati di Hollywood grazie a due film, Juno e Tra le nuvole, che hanno registrato un enorme successo e gli hanno fatto guadagnare un Golden Globe e quattro nomination agli Oscar. Da allora Reitman, abilissimo nel tratteggiare i propri personaggi con un toccante amalgama fra dramma e ironia, ha regalato a Charlize Theron due dei suoi migliori ruoli di sempre (in Young Adult e nel recentissimo Tully), ha realizzato un altro paio di titoli non troppo fortunati e si è concesso una parentesi televisiva con la serie Casual. The Front Runner, ottavo lungometraggio nella sua prolifica produzione, approda finalmente nelle sale italiane dopo i festival di Telluride, di Toronto e di Torino, e si propone come una delle opere più ambiziose nella carriera di Reitman.
Un'ambizione rintracciabile innanzitutto nella scelta della materia narrativa: alfiere di un cinema incentrato sulle vite private e i moti dell'animo di personaggi comuni alle prese con le piccole e grandi sfide dell'esistenza, nel suo ultimo lavoro Jason Reitman decide invece di ricostruire la reale vicenda di una delle figure politiche più note e controverse degli anni Ottanta, il senatore democratico Gary Hart, allargando lo sguardo all'America di Reagan e ai suoi repentini mutamenti nella concezione stessa della politica (come evidenziato nella nostra recensione di The Front Runner). Un interessante "cambio di rotta" che ha dato alla luce uno dei film più drasticamente sottovalutati della stagione, meritevole di un'attenzione assai maggiore rispetto a quella ricevuta oltreoceano.
The Front Runner: Hugh Jackman è il favorito
Accolto in patria da recensioni mediamente positive ma senza reale entusiasmo, The Front Runner - Il vizio del potere è passato pressoché inosservato negli Stati Uniti (appena due milioni di dollari d'incasso), travolto dalla concorrenza spietata dei vari titoli della awards season. Una sorte ingenerosa per una pellicola che, dietro la patina - ma appunto, è solo una patina - del docudrama di stampo classico, rivela una notevole profondità nella descrizione di un microcosmo politico e delle sue trasformazioni. È singolare, fra l'altro, che The Front Runner sia uscito con lievissimo anticipo su un altro film incentrato sulla storia politica americana: Vice - L'uomo nell'ombra di Adam McKay, dotato invece di un approccio più dinamico, con tratti quasi postmoderni, e ricompensato al contrario da un buon successo commerciale e da una pioggia di candidature e di riconoscimenti, fra Oscar e dintorni.
Se in Vice il Dick Cheney di Christian Bale assurge ad allegoria dell'anima più nera dell'America e di una concezione ferocemente machiavellica del potere, il Gary Hart interpretato da Hugh Jackman in The Front Runner è dipinto da tutt'altra prospettiva. Da oltre un decennio membro del Senato degli Stati Uniti per il Colorado, nella primavera del 1987 Gary Hart è l'uomo in cui il Partito Democratico ripone le proprie speranze per riconquistare la Casa Bianca dopo il doppio mandato di Ronald Reagan: il favorito per le Primarie, il leader carismatico animato da sinceri principi riguardo la sfida che si accinge a intraprendere. E lo sguardo di fiera compostezza di Hugh Jackman, unito alla presenza scenica dell'attore, conferiscono la giusta gravitas a un protagonista destinato di lì a poco ad essere travolto da una tempesta mediatica.
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Diario di uno scandalo: il sexgate di Gary Hart
Ma al di là del suo apparente classicismo, The Front Runner fa leva su una messa in scena e su un senso del racconto che aggiornano con intelligenza i modelli di un certo filone della New Hollywood, conferendo a ogni scena un realismo e un'immediatezza encomiabili. A partire già dalle prime sequenze: dalle conversazioni all'interno del quartier generale del Partito Democratico a quelle nelle redazioni dei quotidiani, contraddistinte da un naturalismo e da effetti di overlapping che sembrano mutuati dal cinema di Robert Altman. Jason Reitman, acuto osservatore dei comportamenti umani, non va alla ricerca della scena-madre o dell'enfasi a tutti i costi: gioca in sottrazione, si basa sulle ellissi (le scappatelle di Gary Hart sono puntualmente confinate fuori campo) e spinge lo spettatore a farsi parte attiva nella visione del film, evitando di assumere un atteggiamento didattico nei nostri confronti.
Gary Hart, in sostanza, non è raffigurato come l'eroe senza macchia, vittima di una sorte avversa, bensì come una persona in cui convivono un genuino idealismo e un pragmatico opportunismo: in quale misura, sta a noi stabilirlo in base alla nostra sensibilità e alle nostre percezioni. La stessa complessità morale si può rintracciare sul fronte opposto, quello della stampa, laddove l'inviolabile diritto all'informazione si mescola con il desiderio dello scoop sensazionalistico, in un inesorabile corto circuito fra la deontologia professionale e l'adeguamento alle nuove regole mediatiche. Un corto circuito che costituisce l'autentica ragion d'essere del film: l'oggetto di una riflessione sulla dicotomia fra dimensione pubblica e privata, fra credibilità politica e dignità individuale; fra l'auspicabile limpidezza di ogni candidato e la necessità dell'omissione e della menzogna come strumenti di sopravvivenza nella società contemporanea.
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La politica americana, ieri e oggi
È il motivo per cui The Front Runner, pur incentrando tutta la narrazione sul 'favorito' Gary Hart, mantiene comunque una struttura polifonica, intrecciando punti di vista molteplici e diversificati: quello dello stesso Hart, dal quale tuttavia sceglie occasionalmente di allontanarsi; quello di sua moglie Lee (Vera Farmiga) e dei responsabili della sua campagna elettorale; quello di Ben Bradlee (Alfred Molina), editore del Washington Post, e dei numerosi giornalisti - del Post e del Miami Herald - impegnati sul caso Hart; e quello di Donna Rice (Sara Paxton), la presunta amante alla radice dello scandalo, scagliata nel tritacarne mediatico sotto gli occhi di Irene Kelly (Molly Ephraim), la cui silenziosa disillusione fa da contrappunto a una delle scene più emblematiche del film. Un film che, nell'offrirci uno spaccato della cronaca politica americana del 1987, ovviamente parla anche di noi e della nostra epoca. Senza intenti didattici né toni moralistici, ma con il lucido disincanto di chi adopera il passato come ulteriore chiave di lettura nella comprensione del presente.