C'è vita su Marte? Se lo chiedeva David Bowie in un suo classico degli anni Settanta come chi scrive questa recensione. Ruota proprio intorno alla colonizzazione del "pianeta rosso" The First, la nuova serie tv creata da Beau Willimon e interpretata da Sean Penn (è prodotta da Westward Productions in collaborazione con Hulu, Channel 4 and Endeavor Content), al cinema per una sera, martedì 18 dicembre, e disponibile in streaming in Italia su TimVision dal 19 dicembre. La storia comincia nel giorno della partenza della prima missione spaziale che porterà l'uomo su Marte.
L'emozione si taglia con l'accetta, le celebrazioni si sprecano. Il razzo parte. Ma dopo pochi minuti dal lancio esplode, lasciando una nuvola di fumo fissa e compatta, che sembra quasi un mostro fermo nel cielo. Ad assistere alla scena ci sono i membri della NASA, quelli dell'azienda che ha ricevuto l'appalto per lo spazio, e i familiari delle vittime. I festeggiamenti diventano all'improvviso un gruppo d'ascolto per loro. E quelle effigi a grandezza siderale degli eroici astronauti diventano le loro immagini funebri. Ma in quella navicella manca qualcuno. È Tom Hagerty (Sean Penn), storico astronauta (una scritta televisiva ci dirà che è stato il tredicesimo uomo a camminare sulla Luna) e addestratore della squadra che era sulla navicella, rimasto a casa per una scelta non sua. Le circostanze lo riporteranno in scena. Con esiti che è facile immaginare.
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Viaggio nel 2030
Siamo in un futuro, ma davvero prossimo, nel 2030. Un mondo praticamente uguale al nostro, ma dove già si intuiscono alcuni segni del progresso. Le auto ormai sono a guida autonoma, quasi tutto si attiva con comandi vocali. Ma poi i tubi del lavello si rompono lo stesso. La prima cosa che colpisce della messinscena di The First è questo alternare continuamente il futuribile e l'antico. E il continuo indugiare sui lavori manuali, pratici, tattili di Hagerty. In The First ci sono le asettiche sale di controllo dei centri spaziali, ma anche le polverose cantine delle case di campagna.
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Beau Willimon, da House Of Cards a The First
Ma, in fondo, tutto The First è un'abile mescolanza. Perché unisce l'epicità all'intimismo, il grande al piccolo, il pubblico al privato, inteso come familiare. Beau Willimon e i suoi sceneggiatori sono bravissimi a ricostruire delle backstory, a farci immaginare quelle che sono state le vite dei protagonisti fin qui. L'autore americano, la mentre dietro al successo di House of Cards, qui firma un prodotto che è agli antipodi del political drama per eccellenza. Tanto la serie con Kevin Spacey viveva di un ritmo serrato, adrenalinico, su una continua guerra di nervi tra i vari attori in campo, tanto The First vive di un respiro lento e un racconto rarefatto. La serialità, ormai lo sappiamo, ha tutto il tempo per fermarsi a studiare, a raccontare, ad analizzare. In The First, c'è sì la corsa allo spazio, c'è la tecnologia, ma il focus della trama è al fattore umano. Proprio come in un film dal titolo e dal tema simile, quel First Man di Damien Chazelle dedicato a Neil Armstrong, il primo uomo sulla Luna, The First è prima di tutto un viaggio dentro l'uomo, e dentro i suoi sogni.
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Le cose in comune con First Man
E poi è un viaggio dentro un altro sogno. The First entra dentro il mito della Corsa allo Spazio, lo destruttura, lo smonta e lo rimonta ex novo. Raccontandoci tutto quello che c'è dentro, tutto quello che c'è dietro. C'è l'uomo, con i suoi sogni, c'è l'industria, con le sue motivazioni e ambizioni, c'è la politica, e con lei l'opinione pubblica, con i suoi dubbi e le sue questioni. Citiamo ancora First Man - Il primo uomo di Chazelle, perché è evidente come in comune i due film abbiano anche la caducità della vita di chi va nello spazio. Che è qualcosa a cui ormai non pensiamo più. E invece esiste.
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Sean Penn guida un grande cast
Ma tutto questo sarebbe nulla se non ci fosse lui, Sean Penn. Era un po' che non lo vedevamo, sul grande schermo, in un ruolo così intenso. Lo ritroviamo sul piccolo schermo, in quel mondo della serialità che oggi è quello che detta le tendenze, che sperimenta, che rischia. Sean Penn si costruisce un personaggio classico, quasi da western, o da tragedia: quello dell'eroe che si è ritirato, che ha finito di lottare e vive nel suo buen retiro. Ma che è l'unico che ha un carisma, una capacità di leadership, è l'unico condottiero che può tornare sul campo di battaglia e portare il suo team alla vittoria. Penn diventa un volto più interessante ad ogni anno che passa, con ogni sua ruga che sembra essere una storia da raccontare.
Tra i personaggi il suo è quello più particolare, ritroso e allo stesso tempo solidale, silenzioso eppure in alcuni momenti buffo, guitto, quando sa che serve ad alleviare il dolore. Come quando gioca con i tramezzini per distrarre la bambina che gli chiede chi è che decide chi muore, o quando gioca a fare la faccia da maiale per la "sua" bambina, Denise (Anna Jacoby-Heron) che ormai è grande e ha problemi di dipendenza. È un altro fattore che ci mostra che il film vive di opposti. Accanto a lui, nel cast, spicca la responsabile della società aerospaziale Laz Ingram, interpretata da Natascha McElhone, che era l'innamorata che aspettava Truman fuori dal suo show, e qui è perfetta nel disegnare la fredda manager, che vive in una villa con i quadri di Basquiat e non sa trasmettere alcuna emozione. I primi due episodi che abbiamo visto sono diretti da Agnieszka Holland (Europa Europa). Come ogni europeo, anche lei vede il Sogno Americano con altri occhi, e dona alla serie una visione da cinema d'autore che ben si adatta ai ritmi e agli obiettivi della serie. Quella di essere un film di otto ore più che una serie in otto puntate.
Movieplayer.it
4.0/5