Il finale di The Brutalist: arte vs capitalismo nel capolavoro di Brady Corbet

La nostra analisi dell'epilogo del film di Corbet, in cui esplode il conflitto fra l'anelito di libertà del protagonista László Tóth e una classe dirigente animata da un feroce senso di possesso.

Un'immagine di The Brutalist

Quando un cane si ammala, spesso morde la mano di chi lo nutre, finché qualcuno non pone fine alle sue sofferenze.

La grande arte può prescindere dal potere? È uno degli interrogativi sottesi per tutta la durata di The Brutalist, e rimarcati dal suo poderoso finale, ma anche la declinazione di uno degli aspetti alla radice dell'essenza stessa degli Stati Uniti: una nazione la cui supremazia è stata sempre interconnessa al suo predominio economico, legato in primo luogo all'iniziativa di magnati per i quali l'interesse pubblico si intreccia inestricabilmente al prestigio privato. Non a caso si tratta di uno degli elementi riconducibili al cosiddetto "grande romanzo americano", tanto in letteratura quanto al cinema: un'etichetta attribuita più volte all'acclamato film di Brady Corbet, in un'ideale continuità con un'opera fondativa come Quarto potere di Orson Welles o con un moderno classico quale Il petroliere di Paul Thomas Anderson.

L'epopea di László Tóth nel film di Brady Corbet

Adrien Brody
Adrien Brody in un'immagine di The Brutalist

Non a caso The Brutalist, vincitore del Leone d'Argento alla Mostra di Venezia 2024 e di tre Golden Globe, presenta più di un tratto in comune con questi illustri predecessori: il connubio tra un certo afflato epico e la capacità di scavare nelle pieghe più intime dei suoi personaggi; la straordinaria padronanza del linguaggio cinematografico, che rielabora i modelli del passato spingendoli verso un'ardita innovazione; e non ultima, la scelta di costruire il racconto attorno a un protagonista frutto di invenzione, ma in cui si riflettono lo spirito, il cambiamento e le contraddizioni di un paese e di un'epoca. Il protagonista in questione è László Tóth, ebreo ungherese che, dopo essere sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald, nel 1947 approda a Ellis Island, per poi stabilirsi a Philadelphia e provare a far leva sulle proprie doti di architetto, coltivate presso la scuola Bauhaus e già messe a frutto in patria.

The Brutalist Pearce Alwyn
The Brutalist: un'immagine di Guy Pearce e Joe Alwyn

The Brutalist, pertanto, può essere letto in parte come una storia sull'American Dream: László, che ha il volto emaciato e lo sguardo inquieto di un magnifico Adrien Brody (alle prese con un altro ruolo memorabile, ventidue anni dopo la sua prova da Oscar ne Il pianista), è l'incarnazione dell'outsider destinato al riscatto in virtù di un sensazionale talento, sfidando i demoni interiori - gli echi mai spenti dell'Olocausto, il vortice della dipendenza da oppiacei - così come le barriere di classe. E a fornirgli il trampolino di lancio, sottraendolo a un lavoro di manovalanza nell'industria del carbone per spingerlo a riaprire la propria vena creativa, è l'industriale Harrison Lee Van Buren, affidato a un raggelante Guy Pearce: un milionario che rivendica fieramente il suo statuto da self-made man e che ingaggia László per progettare una "cattedrale nel deserto", l'ossessione perseguita per un intero decennio.

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L'America dei mecenati e la brutalità del potere

Pearce The Brutalist
The Brutalist: un'immagine di Guy Pearce

Nelle intenzioni del magnate, il Van Buren Institute sarà un maestoso centro culturale dedicato a sua madre (The Brutalist, vale la pena sottolinearlo, è anche un film sui legami genealogici: quelli esistenti, ma ancor più quelli recisi), eretto su un solitario colle appena fuori Philadelphia, proprio di fronte alla villa-maniero di Van Buren. La cultura (il teatro, la biblioteca) e la religione (la cappella con l'altare in marmo di Carrara, nel cuore dell'edificio) come offerta per la collettività da parte di una plutocrazia che, nel contribuire al progresso degli Stati Uniti, al contempo celebra il culto di se stessa, con la connivenza della politica e nonostante i "danni collaterali" degli operai vittime di precarie condizioni di sicurezza: l'incidente ferroviario, messo in scena con una vampata rosso fuoco nel mezzo di una nube di fumo bianco, è fra i momenti più cupi e stupefacenti di un film imperniato sulla forza evocativa delle immagini.

Brody Alwyn
The Brutalist: un'immagine di Adrien Brody e Joe Alwyn

Se dunque il talento di László Tóth può tornare a manifestarsi grazie all'apporto di Van Buren, segnando un'evoluzione nell'architettura del Novecento (il brutalismo citato nel titolo, corrente di derivazione europea, avrebbe sancito una netta rottura con il passato attraverso la ruvidezza dello stile industriale e l'esibizione del béton brut), il sodalizio fra il personaggio di Adrien Brody e il suo committente è permeato da un'occulta tensione, che riaffiora a più riprese durante il film: dalla battuta di Van Buren su László che parla come un lustrascarpe, con la chiosa del lancio di una moneta, al sarcasmo di suo figlio Harry (Joe Alwyn), che non esita a evidenziare l'abisso sociale tra la propria famiglia e quella di László ("Noi la tolleriamo"), né ad avanzare pretese sessuali su sua nipote Zsófia (Raffey Cassidy), in un'ellissi narrativa da cui emerge però il senso di possesso dei Van Buren sui loro 'subalterni'.

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Espatriati in cerca della "terra promessa"

The Brutalist Carrara
The Brutalist: un'immagine ambientata nelle cave di marmo di Carrara

Se in questo caso Brady Corbet, autore della sceneggiatura insieme alla compagna Mona Fastvold, si limita ad alludere all'abuso di Harry nei confronti di Zsófia, c'è un'altra violenza che invece si consuma in forma esplicita sullo schermo: la ripresa fissa in campo lungo in cui, senza stacchi di montaggio, assistiamo allo stupro compiuto da Van Buren su László, nella sequenza successiva al loro ingresso nelle cave di Carrara (una sorta di catabasi, in una landa ancestrale in cui i partigiani trucidavano i fascisti). È l'allegoria di un potere che non si fa scrupoli a rimarcare il proprio "diritto di proprietà" perfino sugli esseri umani, né ad ostentare disprezzo per chiunque venga percepito come estraneo ed 'alieno'. Tema-cardine di The Brutalist, d'altronde, è appunto tale condizione di alterità, di sradicamento e di non appartenenza, a dispetto della retorica sull'America come land of opportunity.

Brody Jones
The Brutalist: un'immagine di Adrien Brody e Felicity Jones

Mentre il cugino di László, Attila (Alessandro Nivola), ha obliterato l'identità ebraica mediante il cognome Miller e il matrimonio con la cattolica Audrey (Emma Laird), al contrario Zsófia, succube dell'afasia dopo il trauma del lager, opterà per l'Aliyah, il ritorno alla "terra madre", iniziando una nuova vita a Gerusalemme (e in una scena precedente, ambientata nel 1948, alla radio risuonava la dichiarazione d'indipendenza d'Israele di David Ben Gurion). Ma per László, forse, la "terra promessa" sono gli Stati Uniti, per quanto sua moglie Erzsébet, interpretata da Felicity Jones, provveda ad ammonirlo sull'altra faccia del sogno americano: "Questo posto è marcio. La terra, il cibo che mangiamo... l'intero paese è marcio". Ed è significativo che spetti proprio a lei, nel finale, fare i conti con il clan dei Van Buren, denunciando a chiare lettere il crimine del pater familias.

La colonna sonora di The Brutalist è come le opere di László Tóth: minimalista e imponente La colonna sonora di The Brutalist è come le opere di László Tóth: minimalista e imponente

L'epilogo: l'arte che trascende lo spazio e il tempo

The Brutalist Guy Pearce
The Brutalist: Guy Pearce nel ruolo di Harrison Van Buren

Nella prima e unica scena in cui (dettaglio emblematico) la vediamo alzarsi in piedi e sorreggersi sulle gambe, Erzsébet affronta a testa alta Harrison Van Buren, smascherandone l'ipocrisia e la ferocia e, di fatto, decretando la condanna che lui stesso eseguirà subito dopo, quando si lascerà 'inghiottire' dall'edificio-mausoleo creato dal genio di László e dai soldi del magnate. È una conclusione dai risvolti enigmatici, che funziona da metafora aperta e arricchisce ulteriormente un film densissimo, in cui non ci vengono fornite facili risposte, né tantomeno soluzioni rassicuranti: la morte di Van Buren, o piuttosto la sua sparizione, non scioglie il dubbio sull'ipotesi che, nell'età contemporanea, sia impossibile sperare in un'arte realmente e pienamente libera dalle logiche del potere; che il patto faustiano stipulato da László sia, dopotutto, un male necessario.

The Brutalist
The Brutalist: un'immagine del protagonista Adrien Brody

Probabilmente non si può sconfiggere il capitalismo, la cui natura ambigua è rispecchiata dalla duplicità di Van Buren, il mecenate e il mostro. Magari, però, si può tentare di raggirarlo, come sembra suggerire l'epilogo di The Brutalist: una 'coda' collocata a oltre vent'anni di distanza, nella cornice della prima Biennale di Architettura di Venezia del 1980, quando è una Zsófia adulta a dar voce all'opera dello zio, ormai canonizzato fra i maestri della sua epoca. E a rivelarci che la maestosa struttura in cemento innalzata in onore dei Van Buten costituiva un segreto monumento all'amore di László per la moglie Erzsébet: una riproduzione delle rispettive prigioni a Buchenwald e Dachau, ma unite l'una all'altra da una rete di corridoi e con un soffitto a vetrata in grado di ispirare un anelito di libertà. La prova che la grande arte può davvero "trascendere lo spazio e il tempo", come questo grandissimo film riesce a ricordarci in maniera sublime.