La prima immagine di Roy Cohn è quella di un volto inquadrato in lontananza, dal lato opposto della sala di un esclusivo locale newyorkese, Le Club, con uno sguardo d'avvoltoio puntato in direzione di un giovane Donald Trump. È il 1973, Richard Nixon è ancora (per poco) il Presidente degli Stati Uniti e il ventisettenne Donald è il rampollo di Fred Trump, impresario del settore immobiliare, accusato dal Dipartimento di Giustizia di discriminazione razziale per non aver concesso l'affitto dei propri appartamenti a inquilini afroamericani. L'incontro fra Trump Jr e Roy Cohn sancisce l'inizio della trama di The Apprentice, prima pellicola in lingua inglese per il regista iraniano Ali Abbasi, basata su una sceneggiatura del giornalista Gabriel Sherman e presentata in concorso al Festival di Cannes 2024, in un election year che per la terza volta consecutiva vede Trump in corsa per la Casa Bianca come candidato del Partito Repubblicano.
The Apprentice, che recupera il titolo del reality show televisivo condotto da Donald Trump fra il 2004 e il 2015, utilizza i codici tipici del docudrama per ripercorrere l'ascesa del futuro Presidente degli USA nell'alta finanza e, in contemporanea, negli ambienti patinati del jet set a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, affidando il ruolo principale all'attore rumeno Sebastian Stan, reduce dalla 'militanza' nel Marvel Cinematic Universe. Il film di Ali Abbasi ci propone dunque una cronaca dell'apprendistato di Donald Trump: un apprendistato ideologico, prima ancora che professionale, in cui a svolgere il compito di mentore per l'ambizioso magnate newyorkese è per l'appunto l'avvocato Roy Cohn, figura emblematica della storia americana della seconda metà del Novecento, incarnata sullo schermo dalla maschera gelida e severa di Jeremy Strong, lo straordinario interprete del Kendall Roy di Succession.
Il Mefistofele di Jeremy Strong nel dramma faustiano su Donald Trump
Se nella pluripremiata serie della HBO il suo Kendall sintetizzava l'inettitudine, l'abisso morale e la deriva grottesca del capitalismo dei nostri tempi, in The Apprentice Jeremy Strong si trova alle prese con un personaggio ben più granitico: il Roy Cohn del film è una "eminenza grigia" priva di scrupoli, che prende Trump sotto la propria ala protettrice per inculcargli il mito dell'aggressività come viatico per il successo ("Attacca, attacca, attacca!" è la sua prima regola) e di una post-verità da rimodellare a piacimento, perfino a costo di negare l'evidenza. A tal proposito, Ali Abbasi non ha bisogno di richiamare esplicitamente il mancato riconoscimento della sconfitta elettorale del 2020, con le sue drammatiche conseguenze (l'attentato del 6 gennaio al Campidoglio): The Apprentice è permeato di parallelismi con il recente passato, pur collocandosi fra il crepuscolo dell'epoca di Nixon e le euforie neoliberiste dell'età di Ronald Reagan.
In questo scenario, se Trump è il Faust che vende l'anima al diavolo per erigere la sua personalissima, sacrilega torre di Babele (la Trump Tower, simbolo di una sfrenata idolatria), Roy Cohn è il suo Mefistofele; un Mefistofele destinato però a spegnersi lentamente, consumato da un male inconfessabile a cui si lega un feroce stigma sociale. È una sorta di doloroso contrappasso che a partire dalla scomparsa di Cohn, nel 1986, ha conferito una dimensione ulteriormente tragica a una figura entrata nell'immaginario dell'America della Guerra Fredda: perché assai prima del sodalizio con Trump, Roy Cohn è stato innanzitutto l'inquisitore schierato al fianco del senatore Joseph McCarthy nella crociata anticomunista durante la Red Scare degli anni Cinquanta, nonché uno degli avvocati dell'accusa in uno dei più clamorosi casi giudiziari nella storia degli Stati Uniti, il processo Rosenberg.
Dal processo Rosenberg alla "caccia alle streghe"
Roy Cohn ha appena ventiquattro anni quando, nel 1951, i coniugi Julius ed Ethel Rosenberg vengono portati in tribunale per le loro attività di spionaggio in favore dell'Unione Sovietica, ed è lui a spingere in maniera illecita il giudice Irving Kaufman a condannarli alla pena capitale. Una sentenza 'esemplare', oggetto nei decenni a venire di accese controversie, che avrebbe costituito un trampolino di lancio per la carriera di Cohn, inducendolo nelle grazie del famigerato direttore dell'FBI J. Edgar Hoover e del senatore Joseph McCarthy, al punto da assumere un ruolo preminente nella "caccia alle streghe" maccartista. La fortuna di Cohn subisce una brusca battuta d'arresto nel 1954, quando il Dipartimento della Difesa accusa lui e McCarthy di aver fatto pressioni su alcuni funzionari militari a favore del loro amico G. David Schine. È l'inizio della fine per McCarthy, colpito pochi mesi dopo da una mozione di censura da parte del Senato; caduto in disgrazia, il senatore sprofonda nel vortice dell'alcolismo e morirà nel 1957.
Questo oscuro capitolo della storia americana resterà sempre legato al nome di Roy Cohn, come testimoniano due produzioni televisive incentrate appunto sugli anni del maccartismo. Nel 1992 la HBO manda in onda Citizen Cohn, TV movie tratto dall'omonima biografia di Nicholas von Hoffman, diretto da Frank Pierson e interpretato da James Woods: un ritratto che mette in luce la natura violenta e spregiudicata di Cohn, dedicandosi quasi interamente alla sua attività con McCarthy negli anni Cinquanta, ma mostrando anche il protagonista in un letto d'ospedale nei suoi ultimi giorni di vita, attorniato dagli spettri dei suoi 'avversari'. Il maccartismo è pure al centro di metà degli episodi di Compagni di viaggio, firmato nel 2023 da Ron Nyswaner: la miniserie, che conta fra i suoi personaggi Cohn e McCarthy, si sofferma in particolare sulla Lavender Scare, alla radice del repulisti degli omosessuali dagli uffici governativi, in quanto considerati facilmente ricattabili.
Il maccartismo e il libro nero di Hollywood: storia di una caccia alle streghe
Angels in America: l'ultimo atto di Roy Cohn
Proprio questo elemento avrebbe connotato Roy Cohn, gay non dichiarato, come l'alfiere di una smaccata doppiezza e di una suprema ipocrisia, e sarebbe stato rimarcato con forza, cinque anni dopo la sua morte, in quella che rimane la sua più celebre apparizione nella cultura popolare: Angels in America, opera in due parti (Il millennio si avvicina e Perestroika) realizzata da Tony Kushner nel 1991, insignita del premio Pulitzer e consacrata fra i capolavori del teatro contemporaneo. Nel suo affresco corale sulla crisi dell'AIDS alla metà degli anni Ottanta, Kushner inserisce fra i personaggi lo stesso Cohn, che scopre di essere stato contagiato dal virus dell'HIV ed è determinato a non rendere l'informazione di dominio pubblico, in modo da non essere associato all'omosessualità. A prestargli il volto nel primo allestimento di Angels in America è Henry Goodman, seguito nel 1993 a Broadway da Ron Leibman e nel 2017 da Nathan Lane per un revival del dramma (sia Leibman che Lane saranno premiati con il Tony Award).
Alla fama internazionale di Angels in America contribuisce inoltre la miniserie televisiva della HBO diretta nel 2003 dal veterano Mike Nichols, che riceverà un'accoglienza trionfale. Sul piccolo schermo è l'istrionismo di un magnetico Al Pacino, vincitore del Golden Globe e dell'Emmy Award come miglior attore, a restituire l'arroganza sprezzante di Roy Cohn, la sua convinzione di essere al di sopra della legge e della morale, nonostante il baratro che gli si spalanca sotto i piedi: le accuse di comportamenti non etici ne distruggeranno per sempre la reputazione (pochi mesi prima di morire, Cohn viene radiato dall'albo degli avvocati), mentre al suo capezzale si materializza il fantasma di Ethel Rosenberg, interpretata nella miniserie TV da Meryl Streep. Ed è proprio Angels in America ad averci consegnato il ritratto più memorabile di Roy Cohn: un fragile antieroe costretto a fronteggiare i demoni della propria coscienza, nonché l'emblema di una nazione ancora prigioniera di uno spietato individualismo e di contraddizioni insanabili. L'America del maccartismo, l'America di Reagan e, per certi versi, anche l'America di Trump.