"La forza di Jon sono i grandi ritornelli pop rock che non aspettano altro di essere cantati da 20mila persone in un palazzetto". Non lo diciamo noi, ma un certo Bruce Springsteen, conterraneo di Jon Bon Jovi (entrambi del New Jersey). Ed è una delle chiavi della storia che vi raccontiamo nella recensione di Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story, la docuserie in quattro episodi, in streaming dal 26 aprile su Disney+, che racconta l'epico passato e il futuro incerto di una delle band più riconoscibili al mondo e del suo front-man. Un'odissea di 40 anni di storia del rock, ma sempre sull'orlo del precipizio, con un infortunio alle corde vocali che minaccia di far precipitare tutto. In quella frase di Springsteen c'è il senso di chi sono i Bon Jovi. Magari non sarà la band preferita di molti, ma in pochi sanno resistere al loro sound. Come accadeva negli anni Ottanta, alle feste del liceo, quando a un certo punto c'era voglia di rock e si mettevano le canzoni di Slippery When Wet. I Bon Jovi sono parte di noi, e vedere la serie è un po' come tornare al liceo. Ma ci spinge anche a riflettere sulla fragilità che anche una rockstar può vivere, su com'era lo show business e quanto è cambiato. Pur con qualche lungaggine di troppo, la serie è intensa e interessante.
Bruce Springsteen ce la fa: l'impossibile era a portata di mano
Per capire i Bon Jovi bisogna capire il New Jersey, vicino a New York, ma non così tanto. È la provincia, la periferia, il posto che sembra non interessare a nessuno. Anche a Jon Bon Jovi, all'inizio, viene consigliato di dire che è un cantante di Manhattan. Ma Bruce Springsteen aveva cambiato tutto. Aveva fatto dell'essere del New Jersey un'identità. Aveva scelto di cantare di quelle persone e di quei luoghi. Il Boss, che suonava dell'autostrada che Jon vedeva dalla sua stanza, aveva fatto capire che tutto era possibile. E così, quando Bruce ottiene un contratto discografico, tutti diventano più responsabili, capiscono che ce la possono fare. Ancora di più quando il Boss sale sul palco a cantare, con Jon. L'impossibile era a portata di mano. Questo fa decidere a Jon di lasciare la band di cover in cui canta e di scrivere le sue canzoni.
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La storia di Jon sembra un film
La storia di Jon Bon Jovi potrebbe essere benissimo quella di un film. Jon arriva a New York, dove fa il fattorino ai Power Station Studios, e di notte li utilizza per registrare. Crea una prima canzone, Runaway, un perfetto singolo rock sostenuto da un irresistibile giro di tastiere. Le case discografiche la rifiutano, ma Jon riesce a portarla al deejay di una radio, che la manda in onda. E la radio la fa suonare anche in tutti i supermarket. Tutti vogliono quella canzone, e Jon si ritrova a mettere in piedi una band. I Bongiovi, anzi Bon Jovi, perché due parole suonano meglio, come i... Van Halen.
Livin' On A Prayer? Perfetta per un film
Ma la storia si fa bollente (è l'episodio 2, il più entusiasmante) quando arriva il momento del terzo album, quello che, come sempre, rappresenta la vera sfida. E il terzo album, Slippery When Wet, va alla grande. I Bon Jovi erano considerati una band rock per le ragazze, vista la bellezza del loro leader. Così decidono di scrivere qualcosa da... uomini. Fa sorridere, certo (ricordate il Ken di Barbie?), ma pensano ai cowboy, ai cappelli e ai cavalli: nasce Wanted Dead Or Alive. Scherzi a parte, è una straordinaria canzone cinematica, che evoca un mondo (la usò anche Michael Mann in Miami Vice). I Bon Jovi coinvolgono un autore, Desmond Child, che suggerisce loro un titolo, You Give Love A Bad Name, che sa già di hit. E infatti diventa una traccia clamorosa. Lo diventerà anche Livin' On A Prayer, un'altra canzone cinematografica in cui usano i personaggi. Nella serie ascoltiamo le prime registrazioni della canzone, ed è emozionante, nonostante all'inizio i Bon Jovi non ci credessero poi molto.
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C'era una volta MTV...
La storia di Slippery When Wet, e del seguente album, New Jersey, che i Bon Jovi registrano dopo il tour, in un clima di piena euforia, senza soluzione di continuità, non è solo la storia di una band, ma di come funzionava la musica allora, e come funziona oggi. La vera svolta, ci raccontano, è stata MTV: se eri bravo, e finivi sulla tv musicale per eccellenza, la tua fama esplodeva, ed arrivavi in tutto il mondo. Fa quasi tenerezza vedere certe immagini: oggi le tv musicali non esistono più, la promozione è tutta on line, algoritmi e social. Efficace, forse, ma molto meno intensa, meno romantica. I Bon Jovi, tra il terzo e il quarto album, fanno qualcosa come 240 concerti, registrano New Jersey, e ripartono. Non si fermano mai, il ferro è caldo e vogliono batterlo, con il rischio di arrivare al punto di rottura. Quel racconto, tra il 1986 e il 1989, è in realtà molto attuale: se avete ascoltato le grida di allarme di alcuni artisti di casa nostra, costretti da sfornare un singolo ogni tre mesi, un progetto dietro l'altro, per non essere dimenticati nell'era di Spotify, il discorso non vi sembrerà molto diverso.
Non è più la mia voce...
Ma la vera forza di Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story è la fragilità che Jon Bon Jovi mette in mostra. Lo aveva fatto anche Robbie Williams, nella serie a lui dedicata: ma lì si trattava di problemi psicologici, di personalità, di dipendenze. Qui la fragilità è di tutt'altro tipo: è quella di un cantante, una rockstar mondiale, che perde la voce. Che è come un supereroe che perde i poteri, come Superman (il cui logo è tatuato sulla spalla di Jon) di fronte alla kryptonite. Jon è tornato ai concerti due anni fa, proprio dopo la pandemia, dopo aver contratto il Covid. Ma, in concerto, la sua voce è una delusione: non ce la fa più. Si sente dire, dalle persone a lui più vicine, come la moglie: "Non è stato grande. E io ti ho visto essere grande. È ora di ritirarsi". Così decide di operarsi alle corde vocali. La riabilitazione è lunga, e riprendere a cantare non è facile. "Non è più la mia voce", dice un certo punto. Scuote la testa: il suono che sente uscire dalla sua gola non gli piace. Ce la farà a tornare grande, ad avere un lieto fine. Ma il senso dell'opera è tutto qui: una rockstar può anche non farcela, può anche ritirarsi, mentre la narrazione dominante sembra volerci dire sempre il contrario. "Invecchiare con grazia non deve essere fonte di vergogna", dice Jon. Anche il titolo ha a che fare con una sua frase molto onesta, che chiude la storia. "Se non posso farlo al 102% vi dirò grazie, e buonanotte". Thank You, Goodnight, appunto.
Richie Sambora è uscito dal gruppo
Il documentario su Bon Jovi è prezioso per vari aspetti. Per il presente, che è questa dichiarazione di fragilità e di resa che è quasi unica nel mondo del rock e dello show business in generale. Jon Bon Jovi è in scena con dei lunghi e naturali capelli bianchi: non li tinge e li porta con naturalezza. E per il passato, perché vedere "come eravamo", e com'era il rock a metà degli anni Ottanta per tanti di noi è un tuffo al cuore. Tuttavia, è un documentario che ha dei difetti. È troppo lungo: 4 episodi che arrivano anche a 75 e 90 minuti l'uno per una docuserie sono un formato eccessivo, anche perché tutto poteva essere raccontato in maniera più breve. E ha il vizio di voler coprire tutte le canzoni con il parlato e con una colonna sonora drammatica che a volte le annulla. Sarebbe bello, in alcuni casi, non sentirle per intero, ma almeno per 30-40 secondi, dall'inizio al primo ritornello. Dall'altra parte, la docuserie spinge sulla costruzione drammatica, che ruota intorno al rapporto tra Jon e Richie Sambora, definiti come Buth Cassidy e The Sundance Kid. Per tutto il film Richie è visto come un alter ego, il doppio di Jon, il coprotagonista, a tratti l'antagonista. Dal primo episodio, quando compare proprio alla fine, capiamo che, come in ogni serie che si rispetti, ci sono dei cliffhanger e sono dedicati quasi tutti a lui. Ed è lui il protagonista di una delle sottotrame più forti della storia, il suo abbandono del tour, e poi della band, nel 2013. Sì, Richie Sambora è uscito dal gruppo. Ma i Bon Jovi sono ancora vivi.
Conclusioni
Come vi abbiamo raccontato nella recensione di Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story, i Bon Jovi sono parte di noi e vedere la serie è un po' tornare al liceo, ma anche riflettere sulla fragilità che anche una rockstar può vivere, su com'era lo show business e com'è. Pur con qualche lungaggine di troppo, la serie è intensa e interessante.
Perché ci piace
- La storia di Jon Bon Jovi, così appassionante che sembra uscita da un film.
- La scelta di far trasparire tutta la fragilità che può cogliere anche una rockstar.
- La riflessione sullo show business di allora, in confronto a quello di oggi.
- La costruzione drammatica, che ruota attorno al rapporto tra Jon e Richie Sambora.
Cosa non va
- La serie è troppo lunga: episodi che arrivano a 75 e 90 minuti sono forse eccessivi.
- La scelta di coprire spesso le canzoni con il parlato o la colonna sonora.