Se si pensa a come il revisionismo sia stata una delle anime del cinema statunitense fin dal suo boom, non deve stupire che quest'ultimo primeggi nella volontà di riadattare materiale proveniente da altri media o da altre correnti per appropriarsene ad uso e consumo delle leggi del mercato (un'altra anima, ça va sans dire). Negli anni '60 si prendevano racconti di costume europei per i B-Movie, dopo il postmodernismo si è cominciato a prendere a piene mani da pellicole d'autore per creare titoli prime time (uno ha anche vinto un Oscar appena 3 anni fa). Quello USA è un cinema in cui si può trovare il decimo film su Dracula e il remake di un istant cult danese come Speak No Evil.
La costante? Il rimaneggiamento profondo in termini produttivi e la rilettura attraverso delle regole non scritte che spesso hanno conformato i film ascrivibili al "gigacalderone" del blockbuster d'intrattenimento, anche a costo di stravolgere (fino a smentire) la fonte d'ispirazione di turno. Il rifacimento operato da Blumhouse productions e dal regista James Watkins della pellicola del 2022 diretta da Christian Tafdrup è un esempio perfetto per analizzare l'american way del riadattamento.
Una precisione quasi chirurgica che ha consentito ad una delle case di produzione più importanti del cinema horror contemporaneo di intercettare un titolo di successo del loro genere di riferimento, alterarla al punto di plasmarne ritmo, punti di forza e messaggio ad hoc sul proprio pubblico senza toccare lo scheletro e infine congegnare un finale con l'ardire di ribaltare il materiale originale, rendendo comunque tutto accettabile.
Speak No Evil come un fertile terreno danese
Speak No Evil di Tafdrup è stato un caso nell'anno della sua uscita. Ce lo dicono i numeri dei risultati (molto apprezzato in patria, ma anche all'estero, sia dalla dimensione dei festival che al box office, dove ha incassato quasi tre volte tanto il suo budget) e ce lo dice anche la critica che ha riconosciuto le qualità di un film che ha saputo giocare con i generi, creando una storia dal forte messaggio universale pur utilizzando delle meccaniche estremamente legate alla società di origine. Un mix che ha reso il titolo molto peculiare.
Questo può senza dubbio aver attirato l'attenzione della production del signor Blum, ma (e qui probabilmente sta la genialità tutta statunitense di approcciarsi a questo tipo di operazione) probabilmente ciò che più l'ha attratta è la possibilità di trovare terreno fertile per far germogliare quei semi così specificatamente utili per trasformare un film peculiare e localizzabile in una creatura votata all'alto intrattenimento da home market usa.
Lo scheletro della pellicola è, dopo tutto, perfettamente funzionale, perché rievoca alcuni degli ingredienti alla base del cinema horror americano (l'ambientazione sperduta, la dimensione claustrofobica, il senso di smarrimento che prende per mano quello di impotenza davanti ad un cambiamento inaspettato e il gioco tensivo sempre in agguato) con la possibilità di inserire una bella critica sociale come l'ipocrisia della famiglia tradizionale e un momento rivelatorio in cui la trovata dell'eroe sopraggiunge e tutti si ritrovano. Se ci si infila un cattivo con cui empatizzare, ma da cui sentirsi distante, allora si fa bingo. Qualcuno tipo James McAvoy, che magari esalta anche il dualismo dell'essere umano e diviene metafora del film. A quel punto puoi anche cambiare il finale.
Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti, la recensione: quando un remake supera l'originale
I nuovi germogli a stelle e strisce
Di fatto l'operazione tende a conservare la struttura per cambiarne le fondamenta fin da subito. Laddove il thriller psicologico tipico del cinema nordeuropeo tende a puntare su un tipo di violenza più nascosta ed evocativa, l'horror a stelle e strisce diventa rumorosamente dimostrativo, cambiando così l'approccio alla pellicola. James McAvoy, che, con buona pace di Mackenzie Davis, è il volto di Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti, sta lì a segnalare fin da subito chi sono i buoni e chi sono i cattivi, nella misura in cui i buoni sono coloro chiamati a riscattare la propria sconfitta per superare i cattivi, che hanno già perso e voglio far perdere tutti gli altri. Un classico meccanismo narrativo statunitense che ha una grande presa sul pubblico dal momento che è subito riconoscibile e quindi permette alla pellicola di concentrarsi su altro, nel nostro caso l'aspetto ludico.
Come se si fosse deciso di sopprimere la parte cervellotica della pellicola per far divertire lo spettatore. Esattamente il ragionamento contrario che si riscontra nell'originale, dal momento che invece lì l'aspetto giocoso che si instaurava con lo spettatore verteva proprio sul farlo riflettere. Il titolo, tramite l'ambiguità e lo poi lo shock, voleva parlare dell'essenza profondamente selvaggia di una società che, nonostante le istituzioni più o meno tradizionali, finirà sempre con il muoverla, creando vittime e carnefici. Senza possibilità di uscirne.
Quella operata è una rilettura violenta che, sconvolgendo i pilastri del materiale originale, riesce a rileggerne l'intera impalcatura, dando a tutto un nuovo valore semantico e sconvolgendo così il messaggio finale. La società non è selvaggia, ma lo sono solo coloro che sono stati piegati dalla loro vicenda personale. Degli agenti patogeni che, se si ritrova l'unità in istituzioni come la famiglia, si possono sconfiggere. Ecco allora perché parliamo di revisionismo anche nel caso di Speak No Evil. Come altro volete definire la creazione di un senso nuovo rispetto a quello originale?