Distribuzione Indipendente, realtà ormai consolidata della piccola distribuzione italiana, apre ufficialmente il suo listino. Lo fa con un esordio, una commedia già vista e apprezzata in molti festival internazionali, che arriverà in sala il 19 dicembre: proprio a ridosso delle grandi uscite natalizie. Una bella scommessa, per questo Spaghetti Story: un ritratto di vita popolare di quattro giovani romani, con cui il regista Ciro De Caro punta a raccontare ansie e aspettative di una generazione. Siamo ben lontani, tuttavia, dai ritratti caricaturali e forzatamente sopra le righe a cui tanto cinema italiano ci ha abituati: nel suo stile piano ed essenziale, e nella recitazione spontanea e (a volte) apparentemente ai limiti dell'improvvisazione, De Caro offre uno spaccato credibile, grottesco come i frammenti di vita che racconta, sorretto da un'intelligente ed arguta scrittura.
Nella presentazione alla stampa, tenutasi alla Casa del Cinema di Roma, il regista ha introdotto il suo esordio insieme ai suoi quattro protagonisti principali: Valerio Di Benedetto, Cristian Di Sante, Sara Tosti e Rossella D'Andrea (anche co-sceneggiatrice, nonché compagna di vita dello stesso De Caro). Contestualmente, la distribuzione ha lanciato un simpatico concorso legato al film e ai maneki neko (i "gatti della fortuna" giapponesi, che hanno un ruolo importante nella storia): a spiegarlo è Giovanni Costantino, presidente dell'etichetta romana. "Da oggi parte un urban game", ha detto Costantino, "una caccia al tesoro di questi quattro gatti, ognuno autografato da un attore, per il territorio romano: li nasconderemo in quattro luoghi, e vi forniremo degli indizi su dove trovarli. Quelli che riusciranno, avranno un biglietto omaggio del film: basterà postare una propria foto con il gatto sulla nostra pagina Facebook. Queste cose vengono fatte spesso all'estero, per accompagnare il lancio dei film, ma mai in Italia; nonostante si parli tanto di rinnovamento".
Ciro De Caro: Il film nasce, innanzitutto, dall'esigenza di raccontare qualcosa. A volte si pensa al cinema come a qualcosa che si debba fare per forza con tanti soldi: è un po' come giocare a calcio, è come se si dicesse che o si gioca con la Juventus, o si rinuncia proprio a giocare. Un film si può fare anche in maniera più economica, libera e istintiva: senza tanti compromessi, se non quelli economici. Tra l'altro, nel nostro caso, a volte la mancanza di soldi è stata anche un bene: ci ha resi più creativi. Abbiamo raccontato qualcosa che non sempre viene raccontato, e che, quando succede, viene dipinto in modo più edulcorato: in alcuni film italiani, capita di vedere magari dei precari con la mini. La nostra generazione merita uno sguardo più istintivo, sincero e onesto.
Hai seguito qualche ispirazione, per il film?
Non saprei, mi sono posto in maniera totalmente istintiva, come mai avevo fatto nella mia vita. Non ho voluto pensare a costruire un "progetto": certo, sicuramente sarò stato influenzato dai miei registi preferiti, quelli che hanno rappresentato qualcosa nella mia crescita. Non saprei però individuare un'influenza precisa.
Il film è molto curato, nonostante sia stato realizzato presumibilmente con un basso budget. Puoi dirci a quanto ammontava, grossomodo?
Non c'era un vero budget, per questo film. Pier Francesco Aiello è uno dei produttori che ci hanno "adottato", e hanno fatto in modo che il nostro film diventasse un film per il pubblico. Alcune persone che ci hanno lavorato, hanno anche deciso di non prendere soldi. Di solito dico che è costato quanto un'utilitaria: più o meno la cifra è quella. Un film no budget, quindi, più che low budget.
Rossella D'Andrea: Io ho scritto il film insieme a Ciro, il personaggio nato e cresciuto con me: ma ho cercato di dare attenzione a tutti i personaggi. Volevo evitare di andare per stereotipi, non rappresentare per forza quella figura di donna con tratti forti, immessa sempre in una tematica sociale precisa, forte, che spesso si vede nel cinema italiano; volevamo raccontare delle donne di tutti i giorni, normali, come siamo noi. Il mio personaggio è appunto una donna normale, fragile, che ha le paure che abbiamo tutti: non è definibile subito, le sfumature sono quelle di una donna che potrei anche essere io, anche se nel personaggio c'è un po' di mia madre e un po' delle persone che conosco. Per una volta sono stata "dall'altra parte": quello che lei rimprovera a Valerio, è quello che io mi sento dire tutti i giorni. Le riprese sono durate in tutto 11 giorni, quindi non avevamo molto tempo: Ciro, però, ci ha dato una grande libertà di movimento, e anche l'illuminazione non ci costringeva in movimenti precisi e prestabiliti.
Sara Tosti: Ha aiutato molto la mano femminile che c'è nella sceneggiatura: appena l'ho letta, ho sentito subito la sensibilità che c'è nel descrivere i personaggi femminili. Io sono diversa dal personaggio che interpreto, ma la facilità è stata quella di trovare una persona reale, e non un personaggio: una persona che magari potevo riconoscere in altre persone. È stato anche divertente lavorare sul set, abbiamo potuto lavorare bene in tempi ristretti, ma efficaci.
Il film può essere definito un ritratto della generazione dei 30-40enni?
Valerio Di Benedetto: La nostra era come una squadra di calcio che non aveva mai giocato insieme: nonostante questo, i personaggi nascevano in modo molto naturale. Io interpreto un po' il portavoce di una categoria di attori che ripassa i monologhi mentre beve Spritz: ideologicamente, sono un antieroe che prova a sbarcare il lunario in ogni modo. E' stato favoloso il fatto di non avere limiti, ma di basare tutto sulla collaborazione tra le parti. Il problema di budget è essenzialmente un problema di tempo: quando approcciavi una scena nuova, sapevi che dovevi fare prima possibile. Non avevamo ansia, questo no, ma piuttosto un'urgenza interna. Rivedendo il film ora, tre anni dopo averlo girato, magari può venirci da pensare che faremmo certe cose in maniera diversa, ma questo succede solo perché si cresce, innanzitutto in termini di esperienza. Comunque credo che abbiamo dato il 100%: meglio di così, il film non poteva riuscire.
Cristian Di Sante: Anch'io ne ho conosciuti tanti, di personaggi come il mio: sono cresciuto nella periferia, e tanti avevano i tempi, i modi di fare e la sicurezza del personaggio di Scheggia. È un personaggio bellissimo: non è solo il pazzo spacciatore, ha un lato sensibile, che viene fuori nella parte centrale e lo rende un personaggio diverso. E' vero, prima non ci conoscevamo, non c'eravamo mai visti. La coppia costituita da me e Valerio doveva essere perfetta: non c'erano altre soluzioni, se avessimo sbagliato tempi della recitazione, il film sarebbe fallito.
Ciro De Caro: Tra l'altro, dalle poche prove fatte, venivano fuori cose che non si potevano ricreare; è sempre così con l'improvvisazione, non si ricrea mai quella stessa freschezza, e questo vale a maggior ragione con loro. La loro spontaneità mi sorprendeva, certe scene non le potevamo montare perché io e il direttore della fotografia ridevamo come pazzi
Non so. Dico una cosa, però: non vorrei essere presuntuoso, ma mi piacerebbe che altri ragazzi vendessero scooter e macchina, comprassero una videocamera e iniziassero a raccontare le loro storie. Se il cinema italiano vuole imitare Hollywood, si mette sulla strada sbagliata. Io vedo che all'estero si cerca l'Italia, la nostra tradizione cinematografica. Neorealismo o no, se cerchiamo di imitare il cinema americano, sicuramente falliamo.
Certi dialoghi riguardanti l'universo femminile sono un po' cinici, ma molto realistici... Rossella D'Andrea: Scheggia fa un discorso un po' ingenuo, e forse categorizza troppo quando dice che bisogna recuperare i ruoli, che la donna deve fare la donna, ma nel suo personaggio non c'è maschilismo: sostanzialmente sono d'accordo con le cose che dice. Lo dico e mi espongo, io sono anti-femminista: la donna deve avere piacere ad essere donna. La nostra identità di individui la dobbiamo recuperare, è una cosa preziosa.
L'happy ending finale non è un po' stonato?
Ciro De Caro: Io non lo trovo così "happy ending": la tragedia della nostra generazione è che non c'è un finale. Alla fine, sappiamo che loro hanno capito che c'è la necessità di cambiare, ma non sappiamo se ci riescono. Nelle nostre vite non c'è un finale, siamo sempre in bilico, con la speranza che qualcosa migliori.
Rossella D'Andrea: Soprattutto, è un modo per raccontare la vera essenza di questi personaggi: alla fine, tutti mostrano una faccia diversa da quella che avevano mostrato all'inizio. Alla fine del film, i personaggi capiscono un po' di più di loro stessi.
Come avete scelto le musiche? Ciro De Caro: Sono state scritte dal fratello di Rossella. Io all'inizio volevo un film senza musiche, tranne che per il pezzo alla fine: non potevo avere le canzoni che avrei voluto per questioni di soldi, e quindi preferivo non mettere niente di adattato. Vedo sempre più spesso film senza musica, ultimamente, e sono film realistici, che differenziano molto il cinema dalla televisione. Le musiche, comunque, alla fine le ho inserite solo perché lui me le ha proposte, e ci stavano talmente bene che non ho avuto coraggio di dire di no.
Siete compagni nella vita, e avete scritto insieme. Avete avuto anche qualche battibecco, durante la stesura del copione o le riprese?Io scrivevo, e spesso sentivo lei nell'altra stanza che rideva; poi riguardava e sistemava quello che avevo scritto. Le donne hanno sempre una marcia in più nell'analizzare, capire le persone e saperle razionalizzare. Se non fosse stato per lei, non so come sarebbero venuti i personaggi. Durante le riprese, siamo andati avanti litigando per 2-3 volte al giorno: ma per fortuna stiamo ancora insieme!
Rossella D'Andrea: Il soggetto è partito da lui, struttura e trama le ha fatte lui. Io ho dato più forza ai personaggi, anche se il personaggio di Scheggia è tutto merito suo: io magari ho curato di più quelli femminili, e anche quello di Valerio. È stato bellissimo e durissimo lavorare insieme: quando qualcosa non andava, poteva capitare che lui la prendesse sul personale, ma ovviamente non stavo giudicando lui come persona, era solo il modo di prendere atto del punto in cui stava il lavoro. Ma è facile, in momenti di stress, prenderla sul personale. Il tempo totale di scrittura è stato di circa 6-8 mesi, e le ultime modifiche le abbiamo fatte anche in corsa, appena iniziate le riprese.
Quanto c'è stato l'apporto di ogni singolo attore, nella storia?
Sara Tosti: Io ho cercato di attenermi il più possibile al personaggio di Serena, perché mi piaceva molto: la sua forza e la sua rabbia volevo portarle fino in fondo. Durante il provino, Ciro mi spiegava la storia, e intanto Rossella là dietro aggiungeva delle cose e precisava: nel provino stesso, quindi, ho avuto una visione completa del personaggio. Poi, in seguito, ho scelto alcune cose da approfondire piuttosto che altre.
Valerio Di Benedetto: Anch'io mi sono molto attenuto alla sceneggiatura. Ciro ha detto di aver scritto pensando a noi, ma questo non significava necessariamente che i personaggi ci somigliassero: significava, piuttosto, che come attori potevamo tirare fuori certe cose da un personaggio. Valerio, nel film, è portavoce di una ideologia che va oltre i compromessi: io non sono così, per me il suo è un assolutismo eccessivo.
Cristian Di Sante: Lui mi ha dato fiducia, nel poter cambiare alcune cose e mettere del mio nel personaggio, nonostante non ci conoscessimo. Credo che questa sua fiducia sia stata il motivo della riuscita del personaggio: mi ha dato la possibilità di non avere limiti.
Rossella D'Andrea: Mentre scrivevo, io immaginavo il tono di Giovanna, ma lo immaginavo completamente diverso: ho dovuto scendere a compromessi con la mia natura di napoletana, visto che interpretavo la compagna di un romano. Ho agito in maniera completamente diversa da come mi ero immaginata scrivendo.
Nel film si vedono due provini: nel primo, Valerio va lì per provare una parte, e si sente dire che dovrebbe recitarne un'altra; nel secondo, legge il curriculum all'intervistatore, che fa mostra di fregarsene. Queste due scene sono da leggere come una critica, o come un suggerimento agli aspiranti attori?
Ciro De Caro: Io ho mostrato un attore perché questa è la realtà che conosco, ma, con le dovute differenze, quelle scene rappresentano un po' tutti i colloqui di lavoro. Io ho fatto un po' di pubblicità, di provini ne ho visti tanti, e purtroppo molti attori fanno così: sciorinano curriculum sterminati, che non servono e non interessano a nessuno. La paura e la mancanza di lavoro portano a fingere, e ad arrivare ad un colloquio disperati.
Valerio Di Benedetto: Sembra sempre che ogni occasione di lavoro sia l'ultima, dopodiché c'è il baratro. Quando ci libereremo di questo modo di pensare, forse faremo un passo avanti.