Il suo nome è Craig, Daniel Craig e da sette anni ha licenza d'interpretare l'agente segreto più famoso del grande schermo. Arrivato come un fulmine a ciel sereno nel regno di Bond nel 2005, l'attore inglese ha scommesso tutto il suo futuro al tavolo di un Casino Royale per continuare a essere al servizio di Sua Maestà e portare a termine, tre anni dopo, una vendetta personale in Quantum of Solace. Certo, con lo sguardo di ghiaccio e la mascella serrata, probabilmente non è considerato da tutti l'erede diretto di Sean Connery ma Craig è stato capace di portare 007 verso una profondità caratteriale ancora inesplorata, senza lasciarsi mai fagocitare dal personaggio. A dimostrazione di questo c'è un percorso artistico che, una volta spogliatosi dei suoi eleganti completi da spia britannica, l'ha visto misurarsi con una serie d'interpretazioni divise tra l'action più puro e il dramma intimista grazie anche all'attenzione di registi come Steven Spielberg e David Fincher, capaci di andare oltre l'aspetto più evidente di una muscolatura ben strutturata per scoprire infinite possibilità interpretative. Sarà per questo che, dopo l'esperienza di Cowboys & Aliens e di Millennium - Uomini che odiano le donne, Craig si prepara a tornare dal 31 ottobre negli impeccabili smoking firmati Tom Ford accanto al premio Oscar Bardem e alla nuova Bond Girl Naomie Harris, per Skyfall, ventitreesimo capitolo di un'avventura lunga cinquant'anni, già considerato come il migliore e il più rivoluzionario della saga Bond.
Il suo Bond è sicuramente il più rivoluzionario, soprattutto per un aspetto intimo e psicologico assente prima della sua interpretazione. Per questo motivo ha visto in Mendes l'autore in grado di mettere in luce le fragilità di un personaggio altrimenti invincibile e di condurlo un passo avanti nella sua evoluzione? Daniel Craig: Ormai la storia di come sia stato io a chiedere a Sam di girare un capitolo di Bond è diventata leggenda. Ed effettivamente è tutto vero. Questo connubio, però, è stato il risultato di una lunga conversazione avuto su Bond non come cineasti ma come fan. In quell'occasione ci siamo resi conti di come avessimo molte cose in comune. Ad esempio avevamo visto gli stessi film e provavamo le stesse emozioni. Quello che ci ha unito maggiormente, però, è stata un'opinione chiara su quale direzione dovesse prendere a questo punto il personaggio. Entrambi consideravamo fondamentale che 007 ritornasse anche a vestire un certo umorismo, con uno stile riconoscibile veicolato, però, attraverso una lettura più moderna. Tutto questo lavoro ci ha condotto nuovamente ai vecchi testi di Ian Fleming, dove Bond viene descritto come un assassino che non trova appagante uccidere. In ogni caso abbiamo cercato di rimanere nelle regole della serie dove, alla fine, c'è sempre un eroe pronto a salvare la situazione.
In Skyfall, più che con la classica figura della bond girl, lei si confronta in un rapporto quasi familiare con M. Ma tra Judi Dench e la Regina, di chi ha maggior soggezione sul set? Daniel Craig: Accompagnare la Regina durante l'apertura dei giochi olimpici a Londra è stata un'esperienza a dir poco surreale. Indubbiamente è un ricordo che custodisco e che mi rimarrà dentro per sempre, anche se io non sono certo un suddito perfetto visto le mie convinzioni repubblicane. Insomma, per un ragazzo di Liverpool è quanto di più strano possa accadere.Tra tutti i personaggi diventati storici nella cultura britannica, Bond è l'unico ad avere un legame così forte con l'immaginario collettivo. Secondo lei da cosa nasce questa forte immedesimazione? Daniel Craig: Credo che sia molto semplice. Tutto si rifà alla vecchia e sempre efficace storia dell'eroe. Quando Ian Fleming cominciò a scrivere le avventure di Bond l'Inghilterra era da poco uscita dalla Seconda Guerra Mondiale da vincitrice, ma con molte ferite. Attraverso i suoi romanzi Fleming oltre a toccare le note giuste in cui far risuonare il principio di appartenenza nazionale, costruì anche la grande illusione che avrebbe poi conquistato il mondo, ossia che ci sarebbe sempre stato qualcuno pronto a uscire dall'ombra per prendersi cura di noi.
La relazione che il suo Bond ha con l'elemento femminile si discosta da quella mostrata dai suoi predecessori. Da Casino Royale in poi, nonostante la necessità di superare delle delusioni scottanti, il suo personaggio accetta di crescere e sperimenti nuovi aspetti di se proprio grazie alle donne che lo accompagnano... Daniel Craig: Il mondo ha fatto molti passi avanti rispetto al 1962, ma la mia opinione è che Bond rimanga di fondo sempre sciovinista, continuando a provare piacere nell'accompagnarsi con delle donne affascinanti e di grande forza caratteriale. Certo, collocato nella nostra epoca, preferisco sicuramente vederlo confrontarsi con loro, sia nell'amore che nello scontro verbale, piuttosto che dominare in senso assoluto.Prima di trasformarsi in un film completamente diverso, Skyfall si diverte a sintetizzare in qualche modo dai tre ai quatto decenni della saga di 007. Per realizzare questo ha catturato alcuni degli aspetti dei protagonisti che l'hanno preceduto? Daniel Craig: Il mio unico obiettivo quando interpreto Bond è di non copiare nulla e nessuno. Con Mendes abbiamo discusso ampiamente di questo e abbiamo deciso che fosse giusto inserire degli elementi celebrativi attraverso uno stile moderno ma senza ricalcare nessuno. A volte la gente si è chiesta perché io non metto a posto la cravatta, non sistemo i polsini della camicia o non bevo Martini. Semplicemente non mi riconosco nei gesti e nello stile. Se avessi provato a riprodurli non mi sarebbero riusciti bene, molto semplicemente perché non mi rappresentano in nessun modo. Sean Connery e Pierce Brosnan in questo senso hanno fatto delle cose straordinarie, io ho preferito realizzare un Bond alla mia maniera.
Lei ha lavorato con Sam Mendes sul set di Era mio padre. In quell'occasione si è trovato a dividere la scena con Paul Newman, che interpretava suo padre. Che ricordo ha di quell'esperienza e di un uomo che è stato parte della grande tradizione cinematografica? Daniel Craig: Quell'esperienza mi ha lasciato un ricordo indelebile. Credo che Newman sia una delle star più grandi della storia del cinema. La cosa che in quei giorni mi ha colpito maggiormente, è stata l'immagine di un uomo di settantasei anni con una carriera incredibile alle spalle ancora entusiasta di trovarsi su di un set a recitare. Ricordo che era agitato, emozionato e ironico. A quel punto mi sono detto che, se avessi avuto la fortuna di arrivare alla sua età continuando a recitare con lo stesso entusiasmo, mi sarei potuto considerare un uomo fortunato.