The Electric State e Tales from the Loop: due approcci (opposti) alle opere di Simon Stålenhag

Tra cinema e serie, andiamo a scoprire la poetica visiva e narrativa di Simon Stålenhag che ha ispirato The Electric State e, in precedenza, lo straordinario show Tales from the Loop.

The Electric Stage di Simon Stålenhag

C'è qualcosa nel lavoro retro-futuristico di Simon Stålenhag che risuona da qualche parte tra la malinconia e l'infestato. Non ci sono fantasmi, perlomeno non come siamo soliti intenderli, ma c'è comunque qualcosa che aleggia, che dichiara la sua presenza come un presagio. Di cosa? Beh, quello sta all'occhio di chi guarda, e proprio qui sta il fascino misterico delle opere di Stålenhag.

The Electric State Millie Bobby Brown
The Electric State: Millie Bobby Brown in una scena

Svedese, classe 1984, musicista, designer e soprattutto artista che a partire dal 2014 ha dato alla luce dei libri dallo stile unico e immediatamente riconoscibile. A metà tra graphic novel e romanzo visivo, dove le didascalie sono ridotte all'osso e a narrare sono tavole a tutta pagina che raffigurano un mondo tecnologico ma decadente. Nel suo primo lavoro, Tales from the Loop, finanziato nel 2014 con una campagna crowfunding su Kickstarter, c'è la Svezia. Immortalata soprattutto nella campagna di Mälaröarna, poco fuori Stoccolma dove Stålenhag è cresciuto, retrodatata tra anni Ottanta e Novanta ma re-immaginata in una realtà a cavallo tra ucronia e distopia in cui uno sviluppo scientifico ha portato la società a convivere, e scontrarsi, con i robot.

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Uno scorcio di Tales from the Loop

Poi l'autore passa l'oceano e raffigura anche gli Stati Uniti in The Electric State, terzo libro del 2018 (nel mezzo c'è stato Things from the Flood, una sorta di sequel a Tales from the Loop), che corre dal deserto del Mojave fino al mare. Scenari attraversati dalle vestigia dei ruderi e delle carcasse meccaniche di un conflitto tra uomini e robot, memorie che si stagliano in contrasto alle colossali costruzioni di un impero tecnologico e commerciale che ha catturato la mente delle persone in una distorsione negativa del fertile binomio uomo-tecnologia.

La meraviglia di Tales from the Loop

Negli ultimi anni queste due evocative opere di Stålenhag non sono sfuggite all'attenzione di cinema e serialità. Nel 2020 su Prime Video esce la miniserie Tales from the Loop, scritta e sviluppata da Nathaniel Halpern, mentre nel 2025 ecco arrivare l'adattamento Netflix di The Electric State, film per la regia dei Fratelli Russo. Due trasposizioni che partono dai libri dell'artista svedese e poi le interpretano in modi del tutto differenti, svelando due approcci alla stessa materia di fondo.

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Una scena della serie Prime Video

Centrali nei mondi creati da Stålenhag sono in particolare due: gli anni Novanta e la massiccia presenza della tecnologia. La scelta di questo decennio, oltre a essere quello in cui l'autore è cresciuto e ha formato i propri riferimenti culturali, è anche legata a un discorso attorno alla soglia. Gli anni Duemila sono dietro l'angolo, un nuovo millennio carico di fibrillazioni e ampiamente immaginato come grande porta sul futuro da un codificato bagaglio collettivo di racconti, romanzi, film. Un periodo in cui l'Internet inizia a non essere più un esoterico dominio degli sciamani nerd di chissà quale college o agenzia governativa, ma una realtà che comincia a plasmare concretamente la vita delle persone, unite nella distanza.

Due approcci diversi, tra serie e film

Ecco, questo delle vite influenzate e connesse attorno a un nucleo tecnologico è uno dei temi portanti che abitano l'arte di Stålenhag e che troviamo anche nella trasposizione seriale di Tales from the Loop. Ambientata nella città di finzione di Mercer, in Ohio, qui l'esistenza della comunità locale dipende ed è profondamente intrecciata alla presenza di un acceleratore di particelle, il Loop, guidato da Russ (Jonathan Pryce), che ne è il fondatore. Il Loop sembra però seguire regole che sfuggono alla comprensione, creando bizzarri e inspiegabili mutamenti della realtà di cui fanno esperienza anche la scienziata e figlia di Russ (Rebecca Hall), il collega e marito di lei (Paul Schneider) e i loro due figli.

Con otto episodi lunghi, che fondono una narrazione verticale e orizzontale, dal ritmo compassato e in contrasto con la fruizione bulimica da binge-watching, Tales from the Loop adotta uno stile che affonda nel contemplativo e nei silenzi che richiamano la nostalgia dei tableaux di Stålenhag. Non c'è fretta di andare da nessuna parte, perché fuori dal Loop sembra quasi non esistere niente. Le puntate, dirette anche da registi come Ti West e Jodie Foster, affrontano l'esplorazione di temi che vanno dall'etica sulla robotica alla depressione, dal doppio al rapporto che ci lega al tempo e alla sua concezione.

"Voglio che il mio lavoro sembri il più reale possibile, ma anche che ci sia quel livello in più. Devi essere in un certo senso scollegato dal tono quotidiano. Può succedere di tutto, come se fossi in un universo parallelo." Così spiegava Stålenhag in un'intervista a Vice nel 2018, nel tentativo di descrivere quale 'mood' volesse trasmettere attraverso la sua arte. Dice di partire dal reale perché le sue tavole si originano da foto scattate dallo stesso autore, che poi le ripensa con un disegno digitale che imita i colori ad olio. Un tratto dove i confini sono sfumati e dove i bordi delle forme cedono parte della propria essenza a ciò che la circonda, al paesaggio, al contesto che le comprende e che dunque le definisce anche.

Così donne, uomini e soprattutto bambini (sono quasi sempre loro i protagonisti scelti da Stålenhag) si muovono in ambienti ricolmi di macchinari, tubi, computer e oggetti, sempre in pieno stile retrò, che più che fantascientifici appaiono quasi come artefatti fantasy. Strumentazioni arcane la cui origine non è mai chiarita, lasciata ad appannaggio di un mistero che alberga in un altrove insondabile. Strumentazioni che intervengono e regolamentano il vissuto delle persone, ne integrano le vite in maniera attiva, spesso drastica, talvolta distruttiva. Come la chiusura della serie, amara e non conciliatoria, che non può non suscitare un piccolo tuffo nel petto.

La visione di The Electric State

The Electric State dei Fratelli Russo veleggia però in tutt'altra direzione. Già da quello che sembra essere stato il costo monstre dell'operazione (alcuni report lo danno sui 320 milioni di dollari, cifra che renderebbe il film tra i più costosi di sempre), l'obiettivo dell'adattamento è un altro. Partire dalle tavole di Stålenhag per farne un luna park. E il film, scritto dal duo Christopher Markus - Stephen McFeely (fidati collaboratori dei registi dai tempi dei Captain America e degli Avengers), risponde al 100% alla formula Russo: un po' di avventura, un po' di scontri a muso duro, un po' di alleggerimento umoristico in salsa da buddy movie.

È chiaro allora come questo The Electric State sia un compromesso per andare incontro al pubblico da divano di Netflix, portando in dote anche un volto noto della piattaforma come Millie Bobby Brown e uno del cinema d'intrattenimento come Chris Pratt. Al centro, in apparenza, pare restare l'importanza del viaggio, con un Paese attraversato da costa a costa quando Michelle (Bobby Brown) deve mettersi alla ricerca di suo fratello, il cui corpo è chissà dove nelle mani della Sentre, super azienda che ha il monopolio tecnologico, mentre la sua mente è intrappolata in un robot mascotte.

The Electric State Millie Bobby Brown Chris Pratt Foto
Un momento di The Electric State

Ma se nel libro di Stålenhag l'idea di viaggio faceva rima con le insidie soprattutto emotive, con un tempo interiore sospeso nel silenzio e nell'introspezione, nel lavoro dei Russo diventa l'occasione per menare le mani e far esplodere gli scenari con scontri pirotecnici. Non basta di certo richiamare in un paio di inquadrature le immagini del libro, su cui dominano minacciose le messe in scala di immense torri e titani robotici, per re-interpretare efficacemente l'essenza di un'opera.

Un approccio... streaming

Nei quadri di The Electric State, in cui in sostanza non ci sono altre persone se non la protagonista, incombe infatti un senso di pessimismo latente. In più di un'occasione il racconto del libro si ingrigisce e assume i toni inquietanti di una sorta di techno-weirdness. Spesso manca l'orizzonte: una foschia priva della possibilità di proiettarsi con la testa al futuro, di mettere a fuoco con chiarezza cosa sarà domani. Nel film vige invece la fretta del fare e del mostrare, di rendere tutto visibile e rassicurante con colori saturi e giocosi, scansando quindi la componente fondamentale dell'opera letteraria di partenza: la riflessione, che è la dimensione intangibile su cui agisce l'arte di Stålenhag.

Sarebbe anche una scelta legittima: l'adattamento serve, appunto, a riadattare. Il risultato della pellicola dei Russo è però blando, tiepidamente rassicurante e facile nel trovare soluzioni semplicistiche a contesti complessi. Esiti apertamente in contrasto con l'incertezza liminale su cui si muove il libro di The Electric State (ma anche la serie di Tales from the Loop), che non punta a risolvere, ma a problematizzare. Colmare il gap della storia è qualcosa in mano al lettore-spettatore, che con la propria sensibilità è chiamato a ricostruire le connessioni mancanti, a unire i punti, a lasciarsi persino intimorire. In breve: ad attribuire valore a quell'esperienza evocativa che Stålenhag vuol fare risuonare in ognuno attraverso riferimenti collettivi. Qualcosa che ai tempi di Netflix, che inchioda con accondiscendenza di visione lo spettatore-consumatore, è un lusso che non ci si può a quanto pare permettere.