Se è vero che solitamente l'origine dei conflitti tra popoli è da ricercare nelle divisioni storiche (che siano di stampo religioso, culturale, economico o altro) è altrettanto vero che la loro alimentazione e financo la loro esacerbazione siano una questione prettamente ereditaria. Le fratture sono relative a temi ben più grandi degli uomini, ma la loro sopravvivenza si gioca dentro le singole case, divenendo una questione di educazione o, per dirla in altri termini, di predestinazione: "quel bambino era destinato alla nascita a divenire parte di questo o quello schieramento".
Su questa consapevolezza si gioca l'intero impianto filmico di Shukran ("grazie" in arabo), l'esordio alla regia di Pietro Malegori, con l'aggravante che al centro della narrazione c'è la guerra civile che nel 2011 ha scosso la Siria, dunque un conflitto nato per delle divergenze che riguardano bagagli umani comuni. Il film ci tiene spesso a proporre allo spettatore questo dato, anche banalmente proponendo un'interpretazione diversa della medesima dottrina religiosa a seconda che si stia da una parte o dall'altra della barricata.
Tratto dal romanzo omonimo di Giovanni Terzi (edito da Piemme Mondadori), a sua volta basato su di un fatto realmente accaduto, il titolo vuole indagare non solo le ragioni, ma anche i rimedi ad un conflitto del genere, attraverso una storia di padri e di figli che ha nell'apertura verso l'altro l'unico sbocco possibile verso un futuro. La scrittura non è sempre all'altezza della complessità della vicenda, ma si avvale di nomi d'eccezione come Camélia Jordana e soprattutto Shahab Hosseini (vincitore a Berlino nel 2011 per Una separazione e nel 2016 a Cannes per Il cliente) che aiuta non poco l'operazione.
I bambini sono figli di tutti
Il 2011 è l'anno dello scoppio della guerra civile siriana che vedeva contrapposti una coalizione eterogenea di milizie armate e le forze governative supportanti il governo di Bashar al-Assad. Dopo 13 anni si tratta di una delle più grandi crisi umanitarie dei nostri tempi anche per la condizione dei bambini, tutt'oggi più di 6 milioni costretti a vivere in zone di guerra, e per il fenomeno dei baby soldato.
Da questo, inizia Shukran, mostrandoci il figlio di un combattente, che, appena costretto ad imbracciare un fucile, accusa un malessere talmente grave da necessitare delle cure di un medico. Putroppo però l'unico centro ospedaliero pediatrico funzionante nel Paese si trova a Damasco ed è gestito da dei professionisti che, per sopravvivere emotivamente alle disgrazie quotidiane, vivono (a fatica) in uno status di distacco. Soprattutto Taher Haider (Hosseini), un brillante cardiochirurgo, che rifiuta addirittura l'appello di suo fratello Alì (Abdelhafid Metalsi), un membro di un'associazione umanitaria conosciuta come i "caschi bianchi", che gli chiede di seguirlo in un'area a rischio per curare un bambino.
Sarà poi proprio la morte del fratello a far cambiare idea a Taher e spingerlo ad iniziare la missione alla ricerca del piccolo malato, che solo durante il cammino scoprirà essere il figlio del combattente mostrato ad inizio del film, ovvero il figlio di colui che ha ucciso Alì in seguito ad un attentato. Il viaggio per il Paese del chirurgo si tramuta presto in un viaggio interiore alla ricerca dei motivi che hanno separato il suo popolo e hanno portato lui a chiudersi in se stesso rinunciando persino alla sua umanità.
Una questione di padri e di figli
Seppur ad una prima occhiata Shukran sembra volersi maggiormente concentrare sulla restituzione di uno spaccato di un conflitto enorme, il suo cuore è nella dimensione esistenziale alla quale tutto finisce per convergere. Una trovata illuminante lavorata molto bene da Pietro Malegori e gli sceneggiatori Alessandro Valenti, Elia Adami e Francesco Lefons, i quali, senza forzare, trasformano la guerra in una metafora della disgregazione personale, spostando poi l'attenzione definitivamente sul rapporto padri - figli.
Fin dalla sua apertura il film verte su questo aspetto, che viene messo da parte per dare spazio alla vicenda del protagonista e agli scenari del conflitto (efficacemente ricreati in Puglia) quel tanto che basta per contestualizzare e riaffrontare il tema da un altro punto di vista. La magistrale prova del solito grande Shahab Hosseini, insieme all'inserimento di flashback posizionati ad hoc, trasformano la missione per la salvezza del figlio dell'omicida del fratello in un tentativo di rimettere insieme le parti della sua vita. Quelle che lo hanno portato a separarsi da Alì ben prima della sua morte a causa di battaglie che non appartenevano a lui, ma alla generazione precedente. Il dialogo con altri padri porta il protagonista ad un'illuminazione fondamentale: per vedere la luce bisogna spezzare una catena che ha portato le persone ad isolarsi sempre di più le une dalle altre.
Al problema di una ferita che sanguina da decenni Shukran trova la soluzione dell'umanità, concentrandosi su ciò che accomuna le persone: la Terra, la religione e la cura verso il futuro rappresentato dai più giovani. Un titolo dal messaggio importante e dalla grande ambizione, ma che non sempre riesce a distaccarsi dalla didascalia e a rendere coesa la propria struttura, che si assume il compito di mettere tante cose insieme, accusandone il peso nonostante la vicenda che racconti cerchi di essere il più possibile dritta e precisa dopo il cambio iniziale.
Conclusioni
Nella recensione di Shukran vi abbiamo parlato del bell'esordio di Pietro Malegori tratto dall'omonimo romanzo di Giovanni Terza, ispirato a sua volta ad un fatto realmente accaduto. Un film che solo per delle debolezze di scrittura non riesce a compiere il salto decisivo, dato che la messa in scena e i focus tematici legati allo studio nella natura dei conflitti e le possibili soluzioni sono potenti e molto azzeccati. L'uomo in più dell'operazione è Shahab Hosseini, ancora una volta interprete straordinario in grado di orientare l'intera pellicola.
Perché ci piace
- La prova di Shahab Hosseini.
- La messa in scena della Siria disgregata dal conflitto.
- L'indagine sulla natura della guerra e le possibili soluzioni.
Cosa non va
- La didascalia di alcune sequenze della pellicola.
- Dei difetti strutturali non all'altezza della complessità delle ambizioni.