Shakespeare in Prison
Le ultime battute del Giulio Cesare di Shakespeare, rivisitato dai detenuti di Rebibbia con l'aiuto di Fabio Cavalli, attore e autore teatrale, direttore artistico del Centro Studi Enrico Maria Salerno, aprono la prima sequenza di Cesare deve morire, ultimo lavoro dei fratelli Paolo Taviani e Vittorio Taviani, presentato in concorso al 62esimo Festival di Berlino, cinque anni dopo la loro ultima partecipazione alla kermesse tedesca con La masseria delle allodole. Dopo l'applauso convinto e commosso del pubblico, i riflettori tornano a riaccendersi sui protagonisti della rappresentazione, facendo un passo indietro, e seguendo il loro progetto dagli inizi, a cominciare dal casting, per poi proseguire con le prove e i confronti tra attori e regista. Se l'ultimo lavoro dei Taviani aveva lasciato l'amaro in bocca, soprattutto per la sua impostazione fortemente televisiva, con Cesare deve morire il duo di autori toscani tenta, in maniera convincente, la strada della docu-fiction, per raccontare la genesi di un progetto interessante come quello di dare la possibilità ai detenuti di avvicinarsi all'arte tramite il teatro, e al tempo stesso dare spazio anche alla personalità e al vissuto di ognuno di loro, in un sovrapporsi continuo di prosa ed esperienze di vita reale.
Per il loro precedente lavoro i Taviani avevano puntato sul naturalismo del colore per raccontare una vicenda storica, questa volta fanno ricorso al bianco e nero (tranne per le due sequenze che riguardano la rappresentazione vera e propria) che contribuisce a rendere più intense le performance dei detenuti chiamati ad interpretare la tragedia di Shakespeare. Se le brevi interpretazioni offerte durante il casting fanno sorridere e al contempo suscitano tenerezza, con gli attori invitati a presentarsi e comunicare i propri dati personali "interpretandoli" come se stessero vivendo due situazioni differenti - man mano che le prove proseguono ci si rende conto, con stupore, che l'inesperienza lascia spazio ad un'espressività più efficace, grazie anche al confronto tra i dodici interpreti e il loro insegnante, ma soprattutto grazie al confronto (non sempre facile) tra i detenuti stessi. L'opera di Shakespeare viene quindi plasmata e riadattata sulle personalità di chi la rievocherà sul palcoscenico di Rebibbia: i dialetti italiani si allacciano con garbo alle parole del Bardo per permettere agli attori di raccontarsi tramite l'espressione artistica, anche se per qualcuno questo significherà prendere coscienza della propria prigionia, come si vedrà alla fine. Una scelta non casuale, quella di rappresentare Giulio Cesare, che vede quelli che fuori dalle mura del carcere erano stati "uomini d'onore", confrontarsi con una storia capace di "liberare" il loro passato, almeno dal punto di vista emotivo. Durante le quattro faticose settimane di riprese, lo sguardo dei Taviani si sofferma sulle vicende dei detenuti - tra i quali spicca il bravo e carismatico Salvatore Striano, che interpreta Bruto - e sugli ambienti in cui si svolgono le prove, dai corridoi al cortile del carcere, fino alle celle anguste dalle quali alcuni di loro probabilmente non usciranno mai. Oltre a Striano, che oggi ha scontato il suo debito con la giustizia ed è un attore a tutti gli effetti, l'opera dei Taviani (e quella di Shakespeare) offre spazio anche alla personalità e alla fisicità "regale" di Giovanni Arcuri, che interpreta Cesare così come quella di Francesco Carusone, che invece presta la sua gestualità buffa e tipicamente partenopea all'indovino che mette in guardia il condottiero dai nefasti eventi ai quali andrà incontro.
Non mancano le sequenze suggestive, a questo ultimo lavoro dei registi de La notte di San Lorenzo, tra cui quella delle prove della "congiura", che si svolgono in cortile, con gli altri detenuti di Rebibbia radunati alle finestre sovrastanti: le loro grida e i loro volti, fotografati in bianco e nero, rimandano quasi al cinema classico italiano, pur restando in un contesto più attuale come quello della docu-fiction.
Movieplayer.it
3.0/5