"We are here for one purpose. To serve Him"
Di settimana in settimana, per arrivare a questa recensione del finale di stagione di Servant 2, diretto per l'occasione dalla figlia di M. Night Shyamalan, ci siamo chiesti più volte se le sensazioni di smarrimento e soprattutto stasi provate di puntata in puntata fossero giustificate o meno. Fin dal suo esordio, proprio come WandaVision si è rivelata di recente, Servant si è dimostrata una storia di complessa elaborazione del lutto, che non deve quindi necessariamente essere accogliente, o dire, o fare. Ma semplicemente essere.
TUTTO SUCCEDE, NULLA CAMBIA
Servant è proprio questo. Nella serie di Apple Tv+ vi sono molte caratteristiche del cinema di Shyamalan, che ha diretto il primo episodio per poi rimanere solo in veste di produttore. Eppure la sua presenza è palpabile, ad ogni inquadratura, ad ogni sussulto, ad ogni gioco della fotografia, un po' come succede col cinema di Tim Burton anche quando non è lui dietro la macchina da presa in prima persona. Nelle sue storie spesso capita che sembra che non succeda nulla per tutta la durata della pellicola, poi il finale cambia le carte in tavola con il celebre "Shyamalan twist" e molto di ciò che abbiamo visto acquista un nuovo e più potente significato. In Servant accade più o meno lo stesso e l'effetto straniante e respingente per lo spettatore si è acuito in questo secondo ciclo, che ha visto l'attenzione spostarsi dal membro femminile (Dorothy) a quelli maschili della famiglia (Sean e Julian) e analizzare come loro abbiano affrontato la perdita di Jericho e soprattutto le bugie che ne sono derivate per cercare di mantenere la sanità mentale della donna. Eppure è proprio lei a prendere in mano le redini della situazione, l'azione, e dopo l'apparente rapimento da parte dei membri della "setta" di cui fa parte Lianne, si mette in moto per riavere Jericho fra le proprie braccia a tutti i costi. "Sono sua madre, sono disposta a tutto, chi non è madre non può capire" dirà Dorothy a Lianne in un momento di pura disperazione. La stasi narrativa è in realtà metaforica per la condizione in cui dimorano tutti i personaggi.
PER SERVIRE
Nel finale della prima stagione (ma ben prima in realtà) avevamo compreso che la "servant" del titolo era Lianne, la domestica, la ragazza alla pari, come preferiamo etichettarla insomma, colei che è in casa Turner per servire la famiglia. Nonostante Dorothy voglia fare di tutto per farla sentire "a casa" e non su un posto di lavoro, data anche la travagliata storia familiare della ragazza che abbiamo scoperto man mano. In questa seconda stagione "servant" acquista un ulteriore e se vogliamo più profondo significato: Lianne non è qui solo per servire Dorothy e Sean ma anche il Signore, come l'ha convinta la "setta" che l'ha presa con se dopo la tragica morte dei suoi genitori. Anche se in realtà Lianne ha disubbidito agli ordini ed è andata contro la Natura delle cose riportando in vita Jericho, e da quel momento la Natura la sta facendo pagare a tutti. Tutto è respingente in Servant, provoca un senso di fastidio alla bocca dello stomaco: la regia claustrofobica in casa Turner che, merito del loro essere benestanti, sembra immensa, con sempre nuove stanze, antri, nascondigli da scoprire - come il seminterrato che ha acquistato un nuovo significato "infernale" in questo secondo ciclo, quasi fosse un contatto con l'altro mondo da cui possono fuoriuscire solamente orrori. Eppure casa Turner rimane un luogo chiuso, una prigione da cui è impossibile uscire per i protagonisti, e da cui li abbiamo visti uscire ancora meno in questa seconda stagione. I personaggi, così assurdi eppure così umani, come gli zii man mano conosciuti di Lianne: zio George e la sua devozione religiosa al limite del fanatismo, e ultima in questo finale zia Josephine con il suo abito scuro da lutto con tanto di velo, volto a coprire delle terribili cicatrici. O ancora il nucleo familiare italo-americano dove Lianne si era rifugiata nella prima metà della stagione, ancora una volta legato alla malattia e all'essere bloccati in casa.
COLPA E MERITO
La "colpa" biblica è di tutti in questo finale diretto da Ishana Night Shyamalan, che ha ben ereditato le caratteristiche del padre, senza per questo copiarlo, e con cui tutti devono venire a patti. Julian e Sean devono affrontare il fatto di aver abbandonato Dorothy nel momento del bisogno e di doverne subire le conseguenze, Dorothy stessa il non riuscire ad ammettere ciò che ha fatto e Lianne il non trovare pace tra ciò che è e ciò che le dicono dovrebbe essere, ciò che ha fatto per Jericho e forse non avrebbe dovuto fare. Scopriamo che Lianne è andata a "cercare" Dorothy all'inizio di questa storia, come un'inquietante Mary Poppins, perché sapeva che ci sarebbe stato bisogno di lei e soprattutto perché vedeva in lei la figura materna che non aveva mai avuto, né biologicamente né all'interno della setta. Viene da chiedersi: Dorothy affronterà mai davvero ciò che è successo? Lianne vuole tanto che la donna ammetta le proprie colpe quanto aiutarla ad espiarle e superarle. La religione entra prepotentemente in casa Turner in questo secondo ciclo e in questo finale, facendo vacillare le poche credenze, anche atee, che tutti potevano avere e farli aprire a una speranza che è difficile non accettare quando si è perso un figlio e si è disposti a tutto pur di riaverlo anche solo per cinque minuti. Tutto è paradossale, ridondante e ciclico in Servant: la farsa che continuano tutti a mettere in scena per Dorothy, la sua costante negazione di quanto accaduto a Jericho e allo stesso tempo il suo lottare con le unghie e con i denti per riportare a se il bambino che lei stessa aveva inavvertitamente ucciso. Ma che cos'è la vita se non un grande spettacolo in cui ognuno ha la propria parte?
Conclusioni
Chiudiamo la recensione del finale di stagione di Servant 2 speranzosi verso la terza stagione già in cantiere e convinti che la stasi narrativa apparente per cui questa serie continua a girare in tondo, sia in realtà una metafora dell’elaborazione del lutto e della condizione in cui si trovano bloccati tutti i personaggi. Lauren Ambrose e Toby Kebbell dimostrano ancora una volta chimica e interpretazioni convincenti, così come le bizzarre guest star con cui si ritrovano ad aver a che fare, e tutto l’impianto registico-fotografico di messa in scena va ad omaggiare Shyamalan e le sue caratteristiche di cinema.
Perché ci piace
- Scrittura e messa in scena confermano la natura ambivalente della serie e portano al limite la sopportazione dello spettatore per quanto (non) accade sullo schermo, volutamente
- Lauren Ambrose e Toby Kebbell confermano la loro chimica e interpretazioni convincenti
- La regia di Ishana Night Shyamalan che omaggia il padre senza copiarlo
Cosa non va
- La stasi narrativa apparente potrebbe far sembrare allo spettatore più smaliziato che non sia accaduto nulla in questa seconda stagione a livello di sviluppo della trama