È arrivato da poco nelle sale italiane Baby Boss, il trentaquattresimo lungometraggio della DreamWorks Animation, che vanta nella versione originale le voci di Alec Baldwin, Jimmy Kimmel, Lisa Kudrow e Steve Buscemi. Nulla di nuovo né per la DreamWorks, che ha fatto delle star nei suoi prodotti animati un marchio di fabbrica (ricordiamo che il trio centrale di Shrek è costituito da Mike Myers, Eddie Murphy e Cameron Diaz), né per l'industria animata in generale: da Steve Carell nei panni di Gru (Cattivissimo me) a Dwayne Johnson in quelli di Maui (Oceania), passando per Matthew McConaughey in Sing e Kubo e la spada magica, l'uso di attori famosi - ma anche altre celebrità in generale - per ruoli importanti nell'animazione, e la promozione della loro presenza vocale, è una tradizione consolidata da quasi venticinque anni, con effetti positivi e negativi. In attesa di film come Capitan Mutanda e Cars 3, abbiamo voluto ripercorrere l'evoluzione di questo trend, dalle origini alle problematiche odierne.
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I know that voice!
Come abbiamo detto in apertura di articolo, l'uso delle celebrità a livello di marketing in ambito animato risale al 1992, almeno per quanto concerne il mercato anglosassone. In realtà la presenza di VIP tra i doppiatori è una tradizione risalente a decenni fa, con la differenza cruciale che all'epoca vi si prestava poca attenzione sul piano mediatico. Prendendo come esempio la Disney, il primo film ad aver usufruito di voci famose è stato Le avventure di Ichabod e Mr. Toad, uscito nelle sale americane nel 1949 e inedito al cinema in Italia (i due segmenti che lo compongono sono prima usciti separatamente in VHS, per poi essere riuniti in DVD nel 2004). La prima parte, basata su Il vento fra i salici, è narrata in originale da Basil Rathbone, celebre interprete di Sherlock Holmes (elemento a cui allude il film stesso), mentre La leggenda della valle addormentata si appoggia sulla voce e sulle doti canore di Bing Crosby, udibile anche in italiano poiché le canzoni non sono state doppiate. Negli anni successivi la major è riuscita a reclutare attori del calibro di George Sanders (Shere Khan ne Il libro della giungla), Peter Ustinov (Re Riccardo e Principe Giovanni in Robin Hood), Vincent Price (Rattigan in Basil l'investigatopo) e Angela Lansbury (Mrs. Bric ne La bella e la bestia).
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In questi casi però erano partecipazioni speciali, in ruoli già ben definiti in sede di scrittura, e al fianco di doppiatori professionisti - o attori di cinema passati in modo permanente all'animazione - come Sterling Holloway (voce storica di Winnie the Pooh), Alan Young (Paperon de' Paperoni), Frank Welker (la "voce" degli animali non antropomorfi in quasi tutti i film Disney dal 1986 in poi) ed altri. Un principio applicato anche da altri, come Don Bluth che nelle sue produzioni degli anni Ottanta affiancava a veterani come Hal Smith un caratterista quale Dom DeLuise. Un equilibrio di cui erano consci i critici e gli spettatori adulti, ma solo una volta visto il film (e partendo dal presupposto che la celebrità stesse usando la sua vera voce, cosa non sempre scontata), poiché il marketing si basava interamente sul lungometraggio stesso e non sul cast.
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E alla fine arriva Robin...
Lo spartiacque è stato Aladdin, uscito nelle sale statunitensi il 25 novembre 1992. I doppiatori sono quasi tutti semisconosciuti (Scott Weinger, che prestò la voce al protagonista, era appena entrato nel cast de Gli amici di papà) o professionisti del settore (Welker, Jim Cummings e Corey Burton). L'eccezione notevole è Robin Williams, scritturato nel ruolo del Genio e fonte di una miriade di gag eccezionali grazie alle sue capacità d'improvvisazione. Una scelta logica poiché lo stesso Williams, noto per la sua versatilità vocale, si è più volte definito un cartoon fatta persona e, come il collega Mark Hamill, era motivato da un amore profondo e duraturo per l'arte dell'animazione. Il grande comico accettò persino di lavorare per il minimo sindacale (al giorno d'oggi sono all'incirca 600 dollari per ogni sessione di doppiaggio), a patto che il suo nome non fosse usato nei materiali pubblicitari e il personaggio non occupasse uno spazio eccessivo negli stessi, essendo un comprimario e non il protagonista. La richiesta era legata soprattutto al fatto che nel medesimo periodo dovesse uscire un altro film interpretato da Williams, ma era comunque ragionevole nel contesto di un settore dove il contributo delle star tendeva a non essere menzionato.
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Per motivi principalmente economici, la Disney non ha mantenuto la promessa fatta all'attore, dando così vita al trend delle star come strumento di marketing anche nel mondo dell'animazione (Williams, giustamente offeso, rifiutò di partecipare al primo sequel di Aladdin e allo spin-off televisivo). Negli anni successivi ciò è continuato, grazie all'uso di star come Jeremy Irons (Scar ne Il re leone), Mel Gibson (John Smith in Pocahontas) e Demi Moore (Esmeralda ne Il gobbo di Notre Dame). Una tendenza che però è diminuita in casa Disney in seguito alle dimissioni di Jeffrey Katzenberg, che ha continuato sulla medesima strada con i prodotti DreamWorks. O meglio, le star ci sono tuttora, ma sia Disney che Pixar (il cui personaggio più famoso, Woody in Toy Story, ha la voce di Tom Hanks) tendono a non sottolineare questo aspetto, salvo occasionali ospitate degli attori in questione nei talk show americani.
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È venuto prima il divo o il personaggio?
Generalmente si tende a fare la distinzione fra DreamWorks e gli altri, dicendo - almeno nella stampa anglosassone, dove si presta maggiore attenzione al fenomeno delle voci VIP - che lo studio fondato da Katzenberg si concentra maggiormente sulle star, mentre Disney, Laika, Illumination e compagnia bella lavorano prima sul soggetto, scegliendo eventuali celebrità una volta definiti bene i personaggi (ma con un po' di spazio per l'improvvisazione). Come ha giustamente sottolineato Billy West, voce di Philip J. Fry in Futurama e il più noto detrattore dell'uso indiscriminato di attori famosi nell'animazione, il metodo DreamWorks tende a generare risultati non sempre entusiasmanti perché ha poco senso puntare a tutti i costi sulla star del momento se questa non ha le capacità necessarie per creare un personaggio solo con la voce (vedi Will Smith in Shark Tale), senza dimenticare il fatto che spesso e volentieri i compensi richiesti dagli attori in questione fanno lievitare il budget (un dettaglio di non poco conto considerando che i film della DreamWorks in media non generano incassi stratosferici).
Altra questione spinosa, il marketing, e qui si è pronunciato persino uno dei diretti interessati: Chris Rock, il doppiatore della zebra Marty in Madagascar. In occasione della première del terzo episodio al Festival di Cannes nel 2012, il comico afroamericano si interrogò - giustamente - sulla logica di farlo apparire sulla Croisette per promuovere un film che i francesi, e gli europei in generale, avrebbero visto prevalentemente doppiato in altre lingue. Ancora più paradossale è stata la presenza di Justin Timberlake, sempre a Cannes, per Trolls (il film non c'era, il cast sì), poiché in tale occasione anche le canzoni sono state doppiate. Una bella gatta da pelare, soprattutto se si considera che in quei film i nomi dei doppiatori originali sono scritti a caratteri cubitali nei titoli di testa o coda (e spesso anche nei trailer), e talvolta sono all'origine di gag che risultano incomprensibili o comunque meno divertenti se non si sentono le voci in inglese (di questo è colpevole anche Baby Boss, che ha sottolineato una parodia del celebre cameo di Alec Baldwin in Americani persino sulle locandine).
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Questioni di adattamento
Questo fa sì che il più delle volte proprio i prodotti DreamWorks siano i più difficili da adattare con successo per i doppiaggi in altre lingue, in quanto pieni zeppi di riferimenti alla cultura popolare che non sono necessariamente di fruizione universale. Un problema che si manifesta anche, sporadicamente, altrove, come nel disneyano Zootropolis dove alcuni giochi di parole squisitamente americani sono decisamente meno efficaci se tradotti dall'inglese (vedi la gag dell'elefante). Se si esula dal target più giovane si manifestano anche casi come Bee Movie o Sausage Party - Vita segreta di una salsiccia, che però si indirizzano a un pubblico ben preciso (i fan di Jerry Seinfeld nel primo caso e di Seth Rogen nel secondo) e di conseguenza sono fatti per essere fruibili innanzitutto in lingua originale, prescindendo dalle necessità dei mercati stranieri.
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Per quanto riguarda la questione talvolta spinosa del doppiaggio nostrano, si può quasi dire che la situazione proceda di pari passo con la controparte americana: quando si tratta di opere Disney, la voce famosa è scelta in funzione del personaggio (gli esempi per eccellenza sono Gigi Proietti in Aladdin e Vittorio Gassman ne Il re leone), mentre in un caso come quello di Shark Tale si è cercato di replicare il modello statunitense reclutando celebrità non per forza legate al mondo del cinema (da Will Smith si passò a Tiziano Ferro, per dirne una). Queste eventualità si fanno però sempre più rare, almeno a livello strettamente concettuale, poiché anche gli studios che puntano molto sulle voci celebri - DreamWorks, Sony Pictures Animation - si sono resi conto della necessità di avere una storia forte come fondamento prima di reclutare il divo di turno. Per il marketing il discorso è leggermente diverso, e lì ci sarebbe ancora da lavorare, perché se da un lato la menzione dei vari Myers, Murphy e Baldwin tiene conto della percentuale non indifferente di spettatori adulti, l'abuso della medesima pratica rischia di alienare il pubblico più giovane, dimenticando una verità fondamentale sull'animazione oggi: il più delle volte, sono letteralmente film per tutti.