Il suo nome è Leggenda, lo sarà sempre per ogni italiano di ogni generazione. Il suo viso è quello che ha fatto ridere e assieme disperare un paese che in lui, il Ragionier Ugo Fantozzi, ha sempre trovato il proprio alter ego, quasi un testimone storico dei mali di questo paese, delle disgrazie sociali e storiche che ci affliggevano e ci affliggono. Lo dimostra il fatto che le sue disavventure, le sue peripezie, per quanto assurde, divertenti e fantasiose, non sono in realtà molto diverse da quelle che ancora oggi, nel 2021, tutti soffriamo nel nostro piccolo quotidiano. Il 15 aprile 1976, usciva Il secondo tragico Fantozzi, altro tassello di quella saga destinata a diventare patrimonio culturale dello stivale. Ed ancora oggi per quasi tutti, questo film uscito a un anno di distanza dal primo, è in assoluto il migliore, il più profondo, il più geniale. E allora, via ancora una volta con la mitica corazzata Kotionkin, la battuta di caccia più sciagurata di sempre e la mitica frittatona di cipolle.
Un film incredibilmente connesso all'Italia degli anni 70
Il primo film su Fantozzi fu un successo clamoroso ed insperato. Ben 6 miliardi dell'epoca a fronte di una critica che (come succede sempre da noi) inizialmente fu scettica per poi, negli anni, rivalutarlo in toto. Tuttavia è vero che qualche difetto il film di Luciano Salce lo aveva, soprattutto a causa della sceneggiatura creata assieme a Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e lo stesso Paolo Villaggio che, con questo personaggio, diventò in breve il più amato attore italiano. Sovente il primo Fantozzi era connesso a gag, esplosioni di ilarità che però non si amalgamavano alla perfezione con l'iter, a tratti senza una vera capacità da parte del regista di tenere l'insieme unito e allo stesso tempo dinamico, coerente con le avventure strampalate del protagonista.
Questi difetti furono totalmente eliminati ne Il secondo tragico Fantozzi, anzi si può dire che la stessa regia, così come la sceneggiatura ancora più impostata sul voice-over di uno straordinario Villaggio, fossero tra le cose più belle e riuscite di un film che abbracciò in toto una dimensione agrodolce quasi insostenibile. Rispetto al primo capitolo (con cui comunque creò una continuità assolutamente corretta in termini diegetici), Il secondo tragico Fantozzi virò in modo deciso verso atmosfere in cui la facevano da padrone il classismo, la componente politica dell'Italia di quegli anni. Era un periodo in cui la conflittualità politica connessa al '68, le stragi di Stato, il terrorismo, la crisi economica e le contraddizioni, la facevano da padrone. Solo pochi anni prima l'Italia era stata vicina ad un Colpo di Stato, la sinistra si dibatteva tra mille correnti, la destra era spesso connessa all'eversione più sanguinosa, la Democrazia Cristiana era divisa tra chi cercava di porre un freno e cercare la concordia nazionale e chi invece dal caos traeva profitto. In tutto questo, il secondo capitolo di Fantozzi ebbe lo straordinario merito di presentare una grottesca parodia che non risparmiava nessuno, mostrare dall'interno le tragedia quotidiana di una società incanaglita ed ipocrita.
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Tre simboli del classismo e della ferocia verso i più deboli
Fantozzi continuava imperterrito a subire le peggiori angherie. In questo secondo film, faceva la conoscenza in particolare del crudele ed opportunista Mega Direttore Clamoroso Duca Conte Pier Carlo Ingegner Semenzara (un bravissimo Antonino Faa' di Bruno). In questo personaggio la sceneggiatura a quattro mani riversò tutto il paternalismo, il classismo, la prepotenza e perfidia che si potessero immaginare. Nel farlo, Salce ci mostrò la natura reazionaria e corrotta della nostra classe dirigente, che in fondo anche nei libri di Villaggio era stata spesso un'entità storica trasversale, in cui riemergevano gli echi della dispotica nobiltà savoiarda e lamarmoriana, dell'Italia fascista, della "alta aristocrazia borghese" dei grandi nomi che a dispetto di elezioni, guerre e crisi, rimaneva furbescamente al vertice.
In tandem, ecco che appariva un altro personaggio destinato ad entrare nell'immaginario collettivo italiano: la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare (Nietta Zocchi), anche lei come emersa da uno strano cortocircuito spazio-temporale, in cui titoli nobiliari e modi da Belle Époque erano sopravvissuti ai ruggenti anni 70. Anche qui le opere di Villaggio realizzavano una magnifica metafora. Erano cambiati i nomi, gli abiti, ma sotto sotto l'italiano medio, il piccolo borghese di cui il suo Fantozzi era totem, subiva lo stesso classismo, la stessa prepotenza che avevano subito i padri ed i nonni quando la monarchia ed il fascismo imperavano. A dispetto del tempo, il modus operandi della classi superiori non era diverso, come non lo era del resto il Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam (Paolo Paoloni), anche più spietato e tirannico rispetto agli altri due nobiliastri, e che in sé reca anche lo spirito più ferocemente capitalista.
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Un film che non risparmiava nessuno
Tuttavia chi possa pensare che Villaggio rappresentasse una sorta di vittima, o avesse qualche cosa di connesso profondamente alla pietà verso i più deboli, sbaglierebbe di grosso. Il secondo tragico Fantozzi fu un film feroce soprattutto verso di lui, il Ragioniere, verso i suoi pari, verso la fauna umana che questo film ci descrisse per ciò che era ed è sempre stata in Italia la piccola borghesia: il peggio del peggio. Vile, debole, servile, ansioso di compiacere i superiori, ipocrita nel suo presentarsi come marito fedele quando è pronto a mollare tutto pur di stare con la mitica Signora Silvani (che Anna Mazzamauro rese un monumento alla perfidia), egli rappresenta appieno quell'esistenza volontariamente dolorosa che Chuck Palaniuk avrebbe declinato in Fight Club.
Fantozzi fa un lavoro che odia, è uno schiavo dei colletti bianchi, sogna di comprare cose che non gli servono per piacere a persone che lo odiano e disprezzano. Di base, vorrebbe essere uno di loro e non è poi un personaggio molto più dignitoso dell'inseparabile Silvio Filini (Gigi Reder) che considera amico forse perché è l'unico che sente più patetico di lui. Per quanto non se ne renda conto, non è meno ipocrita dell'arrivista Geometra Luciano Calboni (Giuseppe Anatrelli). Per tutti i 105 minuti di quest'Odissea della sofferenza subisce ogni genere di angheria senza fiatare, riserva il suo ardore a sogni impossibili, alla partita di pallone che, guarda caso, sarà il motivo per il quale alla fin fine si ribellerà all'arrogante e pomposo Prof. Guidobaldo Maria Riccardelli (Mauro Vestri). Ecco in quella proiezione a mo' di tortura della corazzata Kotiomkin, in quella "cagata pazzesca" che diventò momento mitologico della nostra cultura, il film genialmente fustigò sia la povertà di ideali e motivazioni di Ugo e dei suoi pari, sia la mancanza di empatia, la non minor dose di classismo e crudeltà, di quella sinistra radical chic che già in quegli anni 70 ammorbava la nostra società.
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L'eredità di un film sempre attuale
Sono passati 45 anni da quando uscì quel film. La saga di Fantozzi poi sarebbe andata ben oltre il logico, sarebbe naufragata nel tentativo di vivere di rendita soprattutto di quel film, di quel secondo capitolo. L'Italia è cambiata tantissimo da allora. No, non è vero, è rimasta uguale, anzi è peggiorata se possibile, visto che il film fu abbracciato sia da destra che da sinistra, si connetté ad un periodo in cui Berlinguer guidava il PCI verso una nuova strada, cercando con Aldo Moro di costruire un sentiero comune. Non sbaglia chi vide nella rivoluzione finale durante la proiezione anche un atto rivoluzionario, l'augurio di un risveglio della coscienza (per quanto connesso alla distrazione calcistica già poc'anzi specificata).
I 92 minuti di applausi potevano essere l'inizio di qualcosa di diverso per Ugo come per tutti i suoi pari nella vita reale. Di lì a pochi anni invece, la "Marcia dei Colletti Bianchi" avrebbe esacerbato ciò che già Il secondo tragico Fantozzi anticipava nel finale: la resa al capitale, lo scollamento tra operai e i "quadri", l'inizio di quella guerra tra poveri che oggi, ha reso i Megadirettori Galattici non solo più potenti, ma addirittura osannati dalle loro vittime, esaltati dallo storytelling degli eredi del Prof. Riccardelli. Ma in realtà lo avevamo già capito, nella nostra vita quotidiana, così simile, così svilente e pregna di sconfitta, come quella di Ugo Fantozzi, costretto a fare da punghing bag in quel 1976 come noi lo facciamo nel 2021. E come lui anche noi siamo in fondo rassegnati a voler solo vedere in pace la partita di pallone con calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero. Da immortalare sui social però.