Lunga ed impervia è la strada che dall'inferno si snoda verso la luce.
Fino a vent'anni fa, pochi o nessuno avrebbero potuto immaginare che David Fincher sarebbe diventato uno dei nomi più acclamati del cinema contemporaneo... neppure lo stesso David Fincher. Ancora giovanissimo, nella seconda metà degli anni Ottanta questo ragazzo poco più che ventenne nato a Denver aveva rivelato un eccezionale talento come regista di spot pubblicitari e di video musicali, collaborando con star del rock e del pop del calibro di Rick Springfield, Mark Knopfler, i Foreigner, Sting, Madonna, Don Henley e gli Aerosmith.
Nel 1992, a nemmeno trent'anni, Fincher aveva tentato quindi il grande passo verso il cinema, al timone di un progetto molto impegnativo: Alien 3, terzo capitolo della mitica serie fantascientifica, sulle orme di due registi quali Ridley Scott e James Cameron. E benché il risultato, in termini commerciali, fosse stato più che apprezzabile (centosessanta milioni di dollari al box office internazionale), Alien 3 aveva scontentato tutti: i critici, gli affezionati della saga, ma specialmente il suo regista. Snervato dai continui scontri con i produttori della Fox nel corso della produzione e frustrato per le limitazioni alla propria libertà creativa, Fincher non era rimasto soddisfatto del lavoro svolto ("Nessuno odia quel film più di me", avrebbe dichiarato in seguito) e aveva giurato di non rimettere più piede su un set cinematografico. Una promessa disattesa, per sua e nostra fortuna, tre anni più tardi, con un film che sarebbe diventato una delle incontestabili pietre miliari del genere thriller: Seven.
Uscito nelle sale statunitensi il 22 settembre 1995, Seven (noto anche come Se7en) si è scolpito nell'immaginario collettivo come uno dei più innovativi e intriganti thriller del decennio. Frutto di un'audace sceneggiatura di Andrew Kevin Walker, Seven è infatti una pellicola che adotta solo in apparenza le convenzioni del proprio genere di riferimento, per poi spingersi tuttavia in territori ben più oscuri e disturbanti di quanto non osino la maggior parte degli altri film analoghi. È anche per questo, probabilmente, che Seven ha riscosso un enorme successo di pubblico (oltre settanta milioni di spettatori in tutto il mondo) ed ha rilanciato la carriera di David Fincher, che negli anni a venire si sarebbe specializzato proprio nelle varie declinazioni del thriller - e la sua ultima fatica, L'amore bugiardo - Gone Girl, costituisce in tal senso lo zenit indiscusso.
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E oggi, in occasione del ventennale di Seven, abbiamo scelto di celebrare il cult di Fincher analizzando sette aspetti peculiari di un'opera che continua a dare i brividi, adesso come allora...
1. True detectives: Brad Pitt e Morgan Freeman
Al cuore di Seven ci sono i due comprimari impegnati fianco a fianco in una tenebrosa indagine su un serial killer; due detective di polizia che, proprio in virtù delle loro differenze di carattere e delle rispettive visioni della professione e della vita, conferiscono al racconto profondità e pathos. Brad Pitt interpreta David Mills, un giovane detective appena trasferitosi in città insieme alla graziosa moglie Tracy, a cui presta il volto una Gwyneth Paltrow appena ventiduenne (proprio sul set iniziò la relazione fra i due attori, durata fino al 1997). Coraggioso e impulsivo, Mills si ritrova spiazzato dall'atteggiamento più pacato e serafico di William Somerset, un detective più maturo e in procinto di andare in pensione entro una settimana, impersonato da un memorabile Morgan Freeman.
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Somerset (il nome del personaggio, naturalmente, deriva da quello del grande scrittore William Somerset Maugham) esprime una visione nichilista del mondo, e in particolare della dimensione urbana con cui ha a che fare ogni giorno: una sorta di inferno sulla Terra, in cui capita di assistere ad ogni tipo di orrori. Non a caso il contrasto fra la disillusione di Somerset e l'ardimentoso idealismo di Mills rappresenta il nucleo morale del film stesso: Mills e Somerset, pur lavorando l'uno accanto all'altro, incarnano due prospettive sulla realtà dovute alle differenti esperienze di vita. "Raccogliamo i pezzi", spiega Somerset al collega, parlando del loro lavoro; "Accumuliamo montagne di reperti, raduniamo fotografie, campioni... mettiamo tutto su carta; annotiamo a che ora avvengono i fatti. Sistemando tutto ordinatamente e archiviandolo per bene nella speranza che possano servire a qualche tribunale. Sono diamanti raccolti su un'isola deserta, da due naufraghi che aspettano soccorsi".
2. I sette peccati capitali
Se Mills e Somerset sono due protagonisti assolutamente credibili e ben costruiti, l'idea vincente alla base del film risiede nell'ispirazione che spinge l'assassino a trucidare le proprie vittime nelle maniere più macabre e bizzarre: i sette peccati capitali secondo la dottrina cristiana. Gola, avarizia, accidia, lussuria, superbia, invidia e ira sono i sette vizi che il killer decide di stigmatizzare con granguignolesca teatralità, secondo un'ideale "legge del contrappasso" che sembra modellata su quella applicata da Dante alle anime dei dannati nell'Inferno. E i vizi capitali, di conseguenza, diventano i tasselli che Mills e Somerset devono ricomporre per far prendere forma a questo agghiacciante mosaico, ma anche i gironi da attraversare lungo una "galleria degli orrori" che non risparmia allo spettatore immagini grottesche e scioccanti, corrispondenti alle diverse modalità di 'castigo' distribuite dall'assassino con impressionante sadismo.
3. Nella "città dolente"
Se Seven può essere assimilato ad una metaforica "discesa negli inferi", non c'è da stupirsi se la metropoli che fa da teatro alle indagini di Mills e Somerset assume le sembianze di un girone infernale. Fincher, in maniera emblematica, non assegna agli eventi una precisa collocazione geografica, ma colloca i suoi personaggi in uno spazio urbano plumbeo e desolante, scenario di un'inesorabile decadenza: una città perennemente battuta dalla pioggia e in cui pare che il sole non riesca mai a penetrare nella coltre di oscurità che la avvolge. L'atmosfera di abbandono e di squallore riporta alla mente i bassifondi della Los Angeles futuristica dipinta da Ridley Scott in Blade Runner, con la differenza che in Seven l'ambiente metropolitano è espressione di uno stato d'animo ancora più disperato. A tale effetto contribuiscono in misura essenziale la cupissima fotografia dell'iraniano Darius Khondji (il quale impiegò la tecnica del cosiddetto bleach bypass) e le scenografie di Arthur Max, realizzate secondo le indicazioni di Fincher: "Sporco, inquinato, violento, deprimente: a livello visivo e stilistico, così volevamo rappresentare questo mondo. Tutto quanto doveva essere quanto più possibile autentico e crudo".
4. Le sporche lezioni del cuore: la colonna sonora
Per un regista come David Fincher, formatosi nel campo dei video musicali, la colonna sonora riveste un'importanza ineludibile nella costruzione del racconto e delle atmosfere, e Seven non è certo un'eccezione: al contrario, la pellicola può vantare un efficacissimo spartito composto dal canadese Howard Shore, già fedelissimo collaboratore di David Cronenberg nonché autore delle formidabili musiche di un altro capolavoro del thriller, Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme. Ma all'interno della soundtrack di Seven occupano un posto di massimo rilievo anche i due brani che accompagnano rispettivamente i titoli di testa e i titoli di coda, perfettamente in linea con il mood complessivo del film. La prima canzone, che correda le immagini dei libri consultati dal serial killer, è una versione remixata di Closer, cavallo di battaglia della rockband Nine Inch Nails, pubblicata l'anno precedente all'interno del fortunatissimo album The Downward Spiral; e proprio Trent Reznor, leader del gruppo, ha composto le colonne sonore degli ultimi tre lavori di Fincher, aggiudicandosi il premio Oscar nel 2010 per The Social Network.
Sugli end credits, invece, risuona l'inquietante melodia di The Hearts Filthy Lesson, primo singolo tratto da uno dei più singolari dischi nella carriera di David Bowie, Outside, pubblicato appena quattro giorni dopo l'uscita del film. Il tema di questo angoscioso concept album? La parabola di Nathan Adler, un immaginario serial killer che pratica l'omicidio come forma d'arte: giusto a proposito di coincidenze...
5. In cerca di John Doe: l'inseguimento
Uno dei tratti distintivi di Seven, rispetto alla maggior parte dei thriller hollywoodiani degli anni Novanta, riguarda il ritmo narrativo, molto più 'disteso' e studiato, con una tensione che cresce in maniera lenta e progressiva anziché basarsi su sequenze d'azione frenetiche. Tuttavia, a metà della pellicola, di colpo David Fincher assesta al pubblico la prima scossa d'adrenalina con una lunga scena d'inseguimento: il primo scontro di Mills e Somerset con il loro principale sospettato, John Doe. Il nome, ovviamente, è fittizio, è quello di un "signor nessuno", così come il killer rimane una figura senza volto, di cui non è ancora possibile distinguere le sembianze. L'improvvisa apparizione di John Doe, che apre il fuoco sui due detective per poi darsi alla fuga, dà inizio a una macro-sequenza al cardiopalma della durata di diversi minuti, che culminerà con un "incontro ravvicinato" fra David Mills, semi-tramortito su un marciapiede, e l'uomo misterioso a cui sta dando la caccia, il quale però gli risparmierà la vita...
6. "Detective! Credo che stia cercando me": il Male ha il volto di Kevin Spacey
Abbiamo citato John Doe, l'inafferrabile castigatore dei sette vizi capitali: e oggi, probabilmente, non staremmo parlando di Seven se non fosse per questo villain spaventoso e indimenticabile, uno fra i personaggi più sinistri del cinema di ogni tempo. È soltanto nell'ultima mezz'ora che John Doe si svela ai due detective e al pubblico, con un gesto del tutto inaspettato e contrario ad ogni logica e convenzione dei polizieschi: si consegna volontariamente nelle mani della giustizia, con le mani ricoperte di sangue, in un'altra sequenza da manuale. E a prestare il volto a questo serial killer enigmatico e luciferino è un magnifico Kevin Spacey. Il suo John Doe, con quella sottile vena di sadismo che trapela dietro la gelida compostezza, assume connotati quasi metafisici: non si tratta di un comune psicopatico, ma di un'entità demoniaca convinta di agire per conto di Dio. Ed è sbalorditivo pensare che John Doe sia soltanto il secondo maggior villain interpretato dall'attore americano nel 1995: appena un mese prima, infatti, Spacey aveva incantato il pubblico con il suo ritratto dell'ambiguo Roger Kint, alias Keyser Söze, nel cult di Bryan Singer I soliti sospetti, un ruolo per il quale si sarebbe aggiudicato il premio Oscar come miglior attore supporter, battendo fra l'altro la concorrenza dello stesso Pitt (candidato a sua volta per L'esercito delle dodici scimmie).
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7. Finale di partita
E parlando degli ingredienti di un classico moderno quale Seven, sarebbe impossibile non concludere il discorso citando uno dei finali più sorprendenti - e, aggiungiamolo pure, agghiaccianti - nella storia del cinema. La spedizione di Mills e Somerset in un'area desertica, insieme a John Doe, la conversazione in auto fra il giovane detective e il killer, la surreale comparsa di un corriere incaricato di recapitare un pacco misterioso... sono i tasselli di un epilogo semplicemente atroce, oltre che coraggiosissimo nel suo implacabile pessimismo, lontano anni luce dalla volontà di compiacere il pubblico ad ogni costo (e David Fincher e Brad Pitt hanno dovuto battersi per imporre alla New Line di rispettare il copione originale).
Con il procedere dei minuti lo spettatore avverte che qualcosa sta per succedere, che John Doe è in procinto di calare un asso dalla manica, ma Fincher riesce a tenerci con il fiato sospeso, fino a suggerirci con tremenda evidenza quale sia il contenuto della scatola recapitata ai due detective. È la perfetta quadratura del cerchio infernale: l'inevitabile punizione contro gli ultimi due peccati mancanti all'appello, l'invidia e l'ira. E a suggellare questo viaggio senza ritorno negli abissi dell'animo umano sono le parole di William Somerset, in uno degli explicit più famosi della settima arte: "Hemingway una volta ha scritto: 'Il mondo è un bel posto e vale la pena lottare per esso'. Condivido la seconda parte".