Se la commedia diventa grottesca
Rispondendo alle critiche che hanno accolto in Germania il suo ultimo film, Dani Levy sottolinea che gli sembra francamente inutile l'interrogativo più ricorrente che è stato posto rispetto al film negli ultimi mesi: ossia se si possa o meno ridere su un argomento tanto serio, su Hitler e sul Reich nazionalsocialista.
Se questa può sembrare un'istanza oziosa, e forse lo è pure, la vera domanda che sorge dopo la visione di Mein Führer - La veramente vera verità su Adolf Hitler è se si possa ridere, sorridere, riflettere, sul nazismo con un film del genere.
Tutto il marketing, la locandina, ma anche la stessa impostazione scenica, la costruzione delle prime sequenze, imposta la pellicola come una commedia. Poco importa che lo stesso Levy si schermisca dicendo di aver voluto fare una "tragedia dalle venature comiche".
No respingiamo decisamente questa tesi politically correct, e scendiamo sul campo della lettura del testo cinematografico: Mein Führer è una commedia con tutti i crismi del caso.
L'ossessività del saluto nazista reiterato in tutte le prime sequenze, il calcare la mano sull'assurda burocratizzazione della macchina statale, il braccio ingessato del leader delle SS Himmler a mo' di perenne e ingombrante saluto romano, e via discorrendo. Tutti elementi che, uniti al grottesco e improbabile rapporto che si sviluppa tra Hitler e un attore ebreo che dovrebbe ridargli la carica per un ultimo, grandioso discorso, strutturano il film sui binari della commedia pura, ammiccano di continuo allo spettatore in cerca della sua indulgenza e del suo sorriso, senza soluzione di continuità.
Non basta una certa malinconica inesorabilità del finale a smorzarne l'effetto.
Assodato questo, alcuni aspetti dell'opera lasciano a dir poco perplessi. Un Hitler grottesco, interpretato da un Helge Schneider truccato al punto tale da sembrare quasi una maschera di carnevale, che arriva a dire di non avere nulla contro gli ebrei quando lo lasciano in pace, e che si corica nel letto tra l'attore che gli dà lezioni di recitazione (il compianto Ulrich Muhe, qui alla sua ultima interpretazione) e la moglie, a cercare un improbabile conforto affettivo, ha un impatto piuttosto agghiacciante, invece di far ridere come nelle intenzioni.
Ma è un pò tutto il rapporto che si instaura tra il Führer e l'attore ebreo che genera più di qualche perplessità. Una dinamica stantia, prevedibile, che si colora di un'opaca tinta grottesca più che di uno sfavillante humor nero, e che lascia veramente basiti: di fronte alla complessità e alla tragicità di tali eventi, non siamo certi che non si possa scherzare, ridere. Ma per lo meno lo si dovrebbe fare in modo ficcante, intelligente, innovativo. Che in qualche modo faccia riflettere.
Tutti aspetti che mancano a Mein Führer, che si maschera dietro un'improbabile analisi psicologica dell'infanzia del dittatore tedesco, ma che non riesce a fare i conti, pur con tutti i distinguo del caso, con l'intelligente percezione dell'impossibilità di non fare per nulla i conti con la drammaticità di determinate vicende propria, in periodi e a diversi livelli, di altri film che si inseriscono sulla stessa falsariga. Come non pensare a La vita è bella, di Benigni, o a Il grande dittatore di Chaplin.
Forse si potrà ridere anche di queste vicende. Senza però cadere nel ridicolo.