È un cineasta infaticabile, Ron Howard: sessantacinque anni, una lunghissima carriera che prima lo ha visto star della TV, poi regista di successo, e la voglia di affrontare sfide sempre nuove, da Star Wars a progetti più personali. Uno di questi è Pavarotti, un documentario dedicato al grande tenore italiano e presentato da Howard alla Festa del Cinema di Roma 2019, di cui è stato ospite fra venerdì e sabato. La pellicola, che ha già registrato ottimi risultati negli Stati Uniti, sarà nelle sale italiane come evento speciale per tre giorni, dal 28 al 30 ottobre.
Nel frattempo Ron Howard è impegnato nella post-produzione del suo nuovo film, Hillbilly Elegy, con Amy Adams e Glenn Close, in uscita per Netflix il prossimo anno, ma ha trovato il tempo per questa trasferta romana al fine di incontrare la stampa e il pubblico. Un incontro in cui ha messo in mostra il suo carisma e la sua incontenibile vivacità, arricchiti da una loquacità straordinaria: un fiume di ricordi e di aneddoti, narrati spesso con tono esilarante e con l'entusiasmo di un veterano che non ha perso un briciolo della passione per il proprio mestiere.
L'esordio da attore: da American Graffiti a Happy Days
Un cineasta come lei in che modo è arrivato a voler realizzare un documentario su Luciano Pavarotti?
Come cinefilo, sono sempre stato affascinato dai documentari, ma anche intimidito. Da ragazzo pensavo che, se non avessi avuto successo nel cinema, sarei potuto diventare un giornalista: insomma, mi piaceva l'idea di avere a che fare con storie vere. Jonathan Demme passava con straordinaria agilità dai film di finzione ai documentari; quando io ho avuto l'opportunità di girare un documentario su uno spettacolo di Jay-Z, Made in America, ho chiesto a Jonathan Demme se dovessi provare a farlo o se fosse una scelta da idiota. Lui mi ha incoraggiato: "Fa' un tentativo, penso che ti piacerà e potrai mettere a frutto la tua esperienza in qualità di narratore". Ho intenzione di girare altri documentari: mi piace davvero passare dai film basati su sceneggiature ai documentari. Il lavoro da documentarista è molto stimolante e credo influenzi anche il mio lavoro per i film di finzione.
Torniamo ai suoi primi passi da attore: quali ricordi ha di American Graffiti di George Lucas?
A livello culturale, quel film è stato molto eccitante ma insolito: fu realizzato al di fuori del tradizionale sistema hollywoodiano. A Hollywood, i tecnici erano uomini rudi che parlavano come marinai e cowboy, mentre i miei colleghi durante le riprese di American Graffiti erano tutti giovani studenti e cinefili: parlavano continuamente del loro amore per il cinema, qualcosa che di solito non capitava su un set hollywoodiano. Per me fu un'epifania, mi fece capire cosa potesse significare davvero il lavoro da regista.
Quanto ha significato la TV americana classica degli anni Sessanta e Settanta per la sua formazione?
Happy Days diventò un successone in Italia prima che in tutto il resto del mondo, vi devo ringraziare! Ciò che veniva prodotto in TV era molto semplice e lineare, ma si trattava comunque di un processo creativo basato sulla risoluzione dei problemi. Da bambino recitavo in The Andy Griffith Show: lì gli attori avevano occasione di esprimere commenti sugli script e contribuire a risolvere i problemi sul set, ma nessuno dava mai retta ai miei suggerimenti. Perciò non dimenticherò mai che, per il secondo episodio della seconda stagione, durante le prove di una scena, all'improvviso alzai la mano e dissi: "Non credo che un bambino parlerebbe in questo modo". Proposi una battuta alternativa, il regista la accettò e di colpo sentii di far parte del gruppo! Ero felicissimo, e dall'altro lato del set Andy Griffith mi chiese cosa avessi da sorridere; glielo spiegai, e lui per tutta risposta mi disse: "È il primo buon suggerimento che ci hai dato, ora torna al lavoro!". Questo clima sul set mi ha influenzato per la mia successiva attività da regista.
E invece quanto l'ha influenzata il suo passato da attore?
Ho imparato tantissimo dalla televisione, mentre i film prodotti in quel periodo, come Bonnie and Clyde, Il laureato, Romeo e Giulietta e Indovina chi viene a cena?, mi hanno influenzato proprio nel periodo in cui stavo studiando cinema. Quando Happy Days venne registrato davanti a un pubblico fu molto angosciante, ma quest'esperienza mi insegnò due cose: l'importanza dei tempi comici e il rapporto di collaborazione fra tutti i membri del team. Senza dubbio, la mia carriera da regista non sarebbe stata la stessa senza la mia esperienza di attore nelle sit-com televisive.
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La regia e i suoi attori, da Glenn Close a Russell Crowe
Il suo interesse per il giornalismo è stato il motore che l'ha spinta a girare, nel 1994, il film Cronisti d'assalto?
Lo script è stato scritto da un giovane David Koepp, figlio di un giornalista del New York Times; l'ho trovato affascinante e molto divertente, e mi ha consentito di tornare alla mia passione giovanile. Il personaggio di Glenn Close fu scritto per un uomo: quando decisi di scritturare Glenn ci bastò cambiare il suo nome e un paio di battute, ma per il resto abbiamo mantenuto tutto uguale, inclusa la sua rissa con Michael Keaton. Glenn Close fra l'altro è sempre in forma splendida: di recente ho lavorato con lei per il film Hillbilly Elegy, che uscirà l'anno prossimo, e in cui Glenn è fantastica. Durante le riprese della rissa in Cronisti d'assalto Michael mi chiese di dire a Glenn di andarci piano, perché lo stava massacrando!
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Penso che oggi il ruolo del giornalista sia complicato ma importante. Dato che le opinioni si polarizzano e aumentano i motivi di controversia, è necessario che si forniscano informazioni in maniera lucida. I giornalisti devono avere il coraggio di superare questa polarizzazione: le differenze tra informazioni e opinioni sono sempre più sottili, per questo il lavoro del giornalista oggi è più importante che mai. Ho ammirato Luciano Pavarotti quando iniziò a collaborare con delle popstar: molti esperti musicali lo criticarono e questo lo faceva soffrire, ma ciò nonostante ha continuato a creare dei ponti di tipo culturale, un'impresa che ha richiesto un grande coraggio. In modo analogo, i giornalisti possono scegliere se rivolgersi soltanto a chi condividerà il loro stesso punto di vista oppure tentare di raggiungere anche le altre persone, costruendo dei ponti ideologici, politici e culturali da opporre ai muri alle divisioni. È una questione che riguarda chiunque si occupi di comunicazione, che siano fatti reali o storie inventate: possiamo creare dei ponti fra le persone.
Cosa può dirci invece di uno dei suoi film più famosi e acclamati, A Beautiful Mind?
Il mio co-produttore Brian Grazer ha iniziato il progetto partendo da un articolo e da un libro su John Nash. Volevamo combattere lo stigma dalla malattia mentale e avevamo sviluppato tre diversi progetti, con uno stile differente: uno di questi era la storia di John Nash scritta da Akiva Goldsman, figlio di psichiatri. L'obiettivo del film era far comprendere alle persone cosa si provasse ad essere considerati dei matti, essere anime tormentate che non vedono il mondo come gli altri esseri umani. Akiva ha scritto una grande sceneggiatura e gli attori le hanno dato vita sullo schermo. Russell Crowe ha interpretato per me due personaggi totalmente diversi: è un attore davvero intenso e un grandissimo artista, nel suo lavoro c'è una creatività impressionante.
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Sul set con John Wayne e la sculacciata di Bette Davis
A proposito di attori, com'è stato recitare accanto a John Wayne nel western Il pistolero, nel 1976?
Ho collaborato all'ultimo film di John Wayne e sono stato onoratissimo di recitarvi, anche perché adoravo il genere western, per quanto non ritenessi Wayne un grande attore. Lui era capace di intimidirti, ma creammo un rapporto bellissimo: gli chiesi se volesse provare le battute con me, come si faceva di solito in TV, e questo fece colpo su di lui. In ogni battuta inseriva le classiche pause alla John Wayne: all'inizio pensavo che magari si dimenticasse le battute, invece era un suo ritmo peculiare, con cui conferiva potere, carisma e forza alle frasi.
La stessa etica professionale l'ho trovata in Bette Davis, con la quale ho lavorato nell'ultima fase della sua carriera, nonostante i suoi capricci e il comportamento 'tempestoso'. Inoltre ho girato una serie TV con Henry Fonda: la serie non era un granché, eppure Fonda mostrava sempre una professionalità assoluta. La lezione che ho imparato è che, se ami il tuo lavoro, non ti risparmi mai. E Luciano Pavarotti aveva quella stessa qualità di attori come John Wayne, Bette Davis ed Henry Fonda.
Cosa può raccontarci della sua esperienza professionale con Bette Davis in Skyward, nel 1980?
Avevo circa ventiquattro anni e avevo appena lavorato con Roger Corman, mentre Bette Davis era ultrasettantenne: voleva interpretare questo film televisivo prodotto e diretto da me, ma era molto infastidita dal fatto di farsi dirigere da un regista così giovane. All'inizio mi chiamava sempre "Mister Howard". Una volta, durante una discussione al telefono, le chiesi: "Mrs. Davis la prego, mi chiami Ron". Ma lei mi rispose: "La chiamerò Mister Howard fin quando non avrò deciso se lei mi piace o no", e mi riattaccò il telefono in faccia!
Sapevo che il suo regista preferito era William Wyler, che indossava sempre giacca e cravatta sul set; noi stavamo girando in Texas ad agosto, si moriva di caldo, ma io indossai comunque giacca e cravatta. Appena mi vide lei scoppiò a ridere, esclamando a gran voce: "Mi ha spaventato a morte! Ho visto un bambino che mi si avvicinava e mi sono chiesta cos'avesse da dirmi un bambino". Ero in imbarazzo, presi delle pillole per lo stomaco per frenare la tensione: fu una giornata durissima. A un certo punto le diedi alcune indicazioni per la chiusura di una scena: lei non era convinta, ma accettò di provare secondo i miei suggerimenti e subito dopo mi diede ragione. Alla fine di quella giornata la salutai, complimentandomi per il suo lavoro. Lei allora mi rispose: "Ciao Ron, a domani!", poi scoppiò in una tipica risata squillante alla Bette Davis e mi diede una sonora pacca sul sedere!
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Ron Howard come Niki Lauda
Nel 2013 ha diretto Rush: cosa l'ha affascinata in particolare della sfida fra James Hunt e Niki Lauda?
Ho sempre ammirato chi ha una passione tale da puntare dritto al risultato, a qualunque costo; ma io mi identifico di più con il personaggio di Niki Lauda. Anche Rush, come gli altri miei film, è stato il frutto di una collaborazione fra tanti professionisti; ma le collaborazioni più importanti per la mia carriera sono state quelle con gli sceneggiatori, e per Rush Peter Morgan ha scritto un copione grandioso.
Se lei somiglia a Niki Lauda, nel cinema chi considera come il suo James Hunt?
Mentre guardo certi film, provo al tempo stesso una profonda ammirazione ed un'enorme invidia. Io, per esempio, non potrei mai fare quello di cui è capace Wes Anderson. Non ho un singolo James Hunt: ci sono tantissimi registi che riescono a entusiasmarmi, a farmi arrabbiare e a spronarmi nella stessa maniera in cui James Hunt stimolava Niki Lauda.