Atmosfera sudata, una camicia a fiori, una cabriolet malandata, che arranca e borbotta. Un immaginario preciso e subito folgorante, quello ideato da Gianluca Manzetti. Un immaginario luminoso nella struttura narrativa che, fin dal titolo, cita l'aria densa di Miami Blues, romanzo del 1984 firmato da Charles Willeford, che diede il via alla saga pulp del mitico sergente Hoke Moseley. Qui, però, non siamo a Miami, ma nel cuore di un'ammaccata Roma. Una Capitale chiassosa, labirintica, fuori fuoco, abitata da personaggi ambigui (che sembrano usciti da Fargo dei Coen), aggrovigliati da una notte che sembra non finire. Del resto, in Roma Blues, troviamo la stessa voglia di raccontare, di citare, di omaggiare la letteratura hard-boiled e il cinema hollywoodiano classico (figlio di Raymond Chandler), in un pastiche spregiudicato e decisamente riuscito.
Se oggi si parla tanto di quanto il cinema italiano necessiti di un ricambio, è lampante che il debutto di Gianluca Manzetti, dopo diversi spot pubblicitari girati (chi viene dalla pubblicità ha una marcia in più: va dritto al punto), sia il termometro giusto per misurare un cambiamento in atto che, al netto delle difficoltà produttive, pare spinto dalla voglia e dalla passione di fare cinema (pensando al grande schermo, e non alla streaming). Sembra una banalità, eppure Roma Blues, con il suo svagato e dolcissimo approccio, ha un respiro marcatamente cinematografico, che arriva forte allo spettatore, catturato da una storia dai tanti guizzi e dai tanti dettagli.
Roma Blues, tra il rockabilly e il noir
E allora sì, funziona tutto, in Roma Blues. A cominciare dalla cornice: una Roma tinta dai pennarelli di una scenografia dinamica, che si muove come si muovono i protagonisti. Un movimento solo apparente, come nei camera-car del cinema Anni Cinquanta. Una Roma dai perenni lavori in corso, incastrata in quei cantieri senza fine (ottimo il lavoro di production design realizzato da Alessandra Carrer), e asfissiata da un caldo torrido e opprimente. Al centro, c'è Al (Francesco Gheghi, che bravo nella sua sorniona svagatezza), che gira su di una Fiat Barchetta scassata, portando con sé il sogno di fare rock'n'roll (ma intanto lavora in un deprimente parco giochi a tema Far West).
Al è un personaggio archetipo, sia nella personalità che nel look, sapientemente ricercato, che si rifà all'immaginario rockabilly (i costumi sono di Giorgia Maggi). Del resto, Roma Blues è un film di immaginari, che confluiscono poi nel turning point che accede la trama: Al, per caso, trova un telefono che contiene la prova di un efferato omicidio. Lui, che conosce le regole del noir (la sera divora i film in bianco e nero), si incaponisce e vuol risolvere da solo l'intricato caso, nemmeno fosse il detective Marlowe. Se la sceneggiatura segue la casualità degli eventi, in una concatenazione narrativa decisamente efficace, ecco che Al conosce Betty (Mikaela Neaze Silva, rivelazione), outsider istintiva e imprevedibile, aiutandolo in quella che si rivelerà un'assurda e sgangherata indagine fai-da-te.
Grande scrittura, grande messa in scena
Roma Blues, oltre che essere un esordio tra i migliori visti di recente, è essenzialmente un grande film. Il motivo? Lavora di impressioni, scaturite da una scrittura che si rifà ad un altro efficace archetipo: I Simpson. Spieghiamo meglio: fateci caso, ogni episodio de I Simpson parte in un modo e finisce all'opposto. Stessa cosa avviene nella sceneggiatura firmata da Manzetti. C'è un pretesto, e poi di netto irrompe lo switch totale, che non avremmo potuto prevedere. La storia passa da uno stato all'altro. Uno stile di racconto complicato da strutturare (figuriamoci per un debutto), ma che rende bene l'idea di narrativa adattiva e fluida che possiede il film, spinto da una libertà che si affida alla sicurezza dell'istante, più che alla logica pre-confezionata.
Tra l'altro, Roma Blues, che ha l'ambizione di lanciarsi addirittura in un breve momento musical, sottolinea quanto la cosa più importante di un film sia la sceneggiatura stessa. Nel cinema è sempre l'idea a fare la differenza, magari supportata da una messa in scena all'altezza. Per questo parlavamo di dettagli: Roma Blues è curato nei minimi particolari. La scena sembra quasi avere una vita a sé, mossa da una specifica circostanza che poi viene riflessa sia in Al che in Betty. Nei loro tic, nelle loro smorfie, in quei dialoghi che sembrano - di nuovo - frutto del caso, adattivo rispetto al momento che vivono, enfatizzato dai colori saturi che si accedono grazie alla fotografia di Tommaso Tiergi. Insomma, Roma Blues è qualcosa di diverso, eppure è qualcosa che conosciamo già: figlio di un immaginario che ha reso iconico il cinema americano, rivisto con sapiente arguzia da un regista che mescola il coming-of-age all'hard boiled. Tutto, in salsa romana. Impossibile resistergli.
Conclusioni
L'umore è quello degli hard boiled, rivisto però in chiave romana. Il tono generale cita invece i noir degli Anni Cinquanta, facendosi omaggio di un cinema che vive di sensazioni e di archetipi. Così, spinto da una tangibile passione, Gianluca Manzetti cuce (nel vero senso della parola) il suo riuscito esordio cinematografico, Roma Blues. Un film dalle tante storie, che inizia in un modo e finisce in un altro, incrociando al meglio un materiale narrativo perfetto per essere trasportato sul grande schermo.
Perché ci piace
- Il tono generale.
- La storia, dai mille guizzi inaspettati.
- La bravura di Francesco Gheghi e Mikaela Neaze Silva.
- Un film meticoloso e dettagliato.
Cosa non va
- Il finale potrebbe arrivare in modo troppo brusco.