Una distribuzione in 190 paesi, la traduzione in ben 22 lingue e il coraggio di crederci, lo stesso che forse non hanno avuto i distributori classici. È bastato questo perché Rimetti a noi i nostri debiti di Antonio Morabito (regista dell'apprezzato Il venditore di medicine) diventasse il primo film italiano originale Netflix, disponibile dal prossimo 4 maggio.
Come un film originariamente nato per la sala sia alla fine approdato sul più grande servizio streaming al mondo, ce lo spiega lo stessa regista: "Netflix è stata sempre convinta del film, sin dal primo momento; lo ha visto e ha messo sul piatto della bilancia la traduzione in 22 lingue e un'uscita in 190 paesi. Ci ha colpito la sua voglia di scoprire il film, cosa che non posso dire ci sia stata in modo così netto da parte dei distributori tradizionali", racconta. Con Morabito il salto nel mondo dell'intrattenimento on demand, lo fanno anche Marco Giallini e Claudio Santamaria, coppia insolita che nel grottesco universo di Rimetti a noi i nostri debiti interpretano due esattori addetti al recupero crediti.
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Il rapporto con Giallini e Santamaria
Chi sono i protagonisti della storia?
Claudio Santamaria: Anche questo film, come il precedente Il venditore di medicine, racconta un macrosistema attraverso l'ultima ruota dell'ingranaggio. Guido è una persona che lotta per la sopravvivenza dopo aver perso l'ennesimo lavoro; perseguitato dai debiti proverà a essere anche lui uno squalo, ma dovrà vedersela con la propria coscienza, rappresentata dal vecchio professore, vicino di casa, che sarà il suo mentore positivo. Franco e Guido sembrano un po' i protagonisti de Il sorpasso, anche se all'inizio è difficile immaginare insieme due personaggi così male assortiti. Una volta vedendoci insieme il direttore della fotografia ci disse: "Nessuno dei due permette all'altro di essere quello che è di solito". È vero, siamo molto diversi come attori e lo sono anche i nostri personaggi: il ruolo di Marco è istrionico, da guascone, il mio invece è chiuso nel proprio mondo e non gli dà corda. Ognuno dei due ha tirato fuori dall'altro cose insolite.
Marco Giallini: È un film onirico che in alcuni momenti mi ha ricordato L'odore della notte, e non è temporalmente collocabile, nonostante ci siano dei luoghi perfettamente riconoscibili di Roma, come ad esempio il Verano.
Antonio Morabito: Era come se sul set ci fosse un terzo personaggio, un'entità Giallini-Santamaria che cambiava di continuo dettando il ritmo e la cadenza del film, che ha diversi registri dal grottesco a quello più duro.
Come è stato dirigerli?
Antonio Morabito: Sono due attori molto diversi e ognuno si è appoggiato e nutrito delle differenze dell'altro. Non abbiamo provato tanto, conoscevo bene Claudio perché lo avevo già diretto ne Il venditore di medicine e la sua bravura non mi ha stupito neanche nelle circostanze che potevano non essere proprio il suo contesto; invece conoscevo Marco solo dai suoi film. Dopo averlo incontrato la prima volta ho riscritto quasi metà del copione, mi illudo di aver messo in questo film un po' di Marco.
I debitori vengono paragonati a dei "morti". Come hai lavorato su questa atmosfera un po' da zombie, da morti viventi?
Antonio Morabito: L'associazione del debitore al morto l'ho presa indegnamente in prestito dal Čičikov (protagonista di Le anime morte, ndr.) di Gogol: Čičikov andava in giro per le lande della Russia a comprare le anime dei morti dopo l'ultimo censimento, così ho voluto creare un'analogia, un'assonanza con la condizione del debitore che non ha più solo un debito a livello economico, ma anche verso se stesso e la vita, ed è già "morto".
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Genesi della storia e Netflix
Da dove arriva questa storia?
Antonio Morabito: Mi sono ispirato a due cose: una società di recupero crediti spagnola un po' bizzarra, che veste i propri esattori con un frac appariscente per dare il tormento ai debitori, da qui deriva la dimensione più grottesca del film. Poi mi ha colpito vedere quanto una società con molti clienti, come una banca, dopo vari tentativi, decida di affidare e di vendere il debito a percentuale a una terza società.
È la vostra prima volta con Netflix. Un film con questo tipo di uscita è più simile ad un'esperienza televisiva o è un'avventura completamente nuova?
Claudio Santamaria: Per me è qualcosa di completamente inedito, è un film nato per il cinema che si ritrova invece a viaggiare su altri canali. È bello sapere che lo vedranno in tantissimi paesi, significa che ha un respiro internazionale e Netflix ci ha creduto. La gente va sempre meno al cinema e in tanti ormai ricorrono a questo tipo di fruizione; non voglio dire che la sala sia destinata a sparire, perché il cinema rimane ancora un importante momento di aggregazione, mi piace l'idea della sala, ci vado almeno due volte a settimana.
Marco Giallini: Pensavo che il film sarebbe andato in sala, non ero per niente preparato a un'esperienza del genere.
Antonio Morabito: Sono cresciuto nelle sale cinematografiche, ma credo che il ventaglio dell'offerta si sia molto ridotto; penso che soggetti distributivi (registi, produttori, esercenti) fino a qualche anno fa artefici di distribuzioni che non erano solo puro intrattenimento e che in sala vivevano una vita dignitosa, siano oggi responsabili di un riduzione dell'offerta. Questo non capita in una realtà come Netflix che fin da subito ha visto il film, ci ha creduto e ha scelto di puntarci pur essendo un prodotto fortemente politico, aspetto che oggi potrebbe impensierire invece un distributore classico. Non posso che essere contento di questa distribuzione.
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Cannes chiude a Netflix. Cosa ne pensate?
Antonio Morabito: Non ho Facebook e non amo i selfie, ma non credo che attraverso un divieto si possa risolvere un problema, se non al contrario solleticare un desiderio. Le battaglie vanno fatte sui contenuti, è una posizione alquanto bizzarra. Netflix è una possibilità per quei film che in sala non arrivano o è un problema per quelli che invece ci vanno?
Claudio Santamaria: Non è il passaggio in sala a determinare un buon film, certamente l'esperienza dello spettatore tra il salotto di casa propria e la sala cambia, come cambia l'esperienza di chi ci lavora. In questo caso ad esempio credo che con una distribuzione in 190 paesi Netflix dia al nostro film molta più dignità.
La differenza di quando giri per la tv o per il cinema è anche di tipo tecnico, ma ci sono molte serie girate con una fotografia e un linguaggio cinematografico, che potrebbero servirci da stimolo. Perché in Italia non siamo in grado di fare questo tipo di lavoro? La gente vuole vedere cose belle.