Cos'è un film? Per molti è pura arte di intrattenimento, strumento di distrazione evasiva dal grigiore della quotidianità. Per altri è un ponte unico, fatto di celluloide, tra l'arte e la vita vera. Finestra sul nostro mondo, il cinema con il tempo non si è più limitato a distrarci, divertirci, ma a parlare di noi. Forgiato sui resti del passato, parla del presente fino a prevedere il futuro. Luogo di produzione e circolazione di discorsi sociali, il film si fa corpus culturale, chiave di lettura e decifrazione di un microcosmo pronto a mostrarsi e riflettersi in mille e più inquadrature. Un cambio d'abiti quanto mai dimostrato e reso esplicito dall'arte del remake. Non solo mera operazione di copia incolla, o rielaborazione pedissequa dell'opera originale, il remake cinematografico è uno studio antropologico, sociale e culturale, in cui una medesima storia viene riproposta in forma differente perché riscrittura audio-visiva di un testo che attinge a una cultura e società precisa.
Così uguale, eppure così diverso, il remake ha fatto sempre più capolino in un panorama cinematografico come quello attuale in cui le idee sembrano essere esaurite e l'immaginazione ridotta allo zero. Ecco allora che le produzioni guardano altrove, al di là dei propri confini, per prendere in prestito storie interessanti e rielaborarle in chiave personale, sostituendo atteggiamenti, mode, aspetti linguistici conformi al milieu culturale e sociale a cui si propone. Un'operazione di appropriazione, modifica e aggiornamento che sempre più caratterizza l'operato delle produzioni americane. Lo dimostra non solo la vittoria di Coda - I segni del cuore agli Oscar 2022, ma anche e soprattutto l'uscita sulla piattaforma Prime Video di Goodnight Mommy, remake in chiave stelle e strisce dell'omonima pellicola austriaca. Ma quali sono gli altri grandi rifacimenti cinematografici? Scopritelo attraverso gli 8 remake in chiave americana che abbiamo selezionato per voi, tra alti e bassi.
1. The Ring da Ringu (2002)
Sette giorni. Una videocassetta maledetta. Morti inquietanti. Un pozzo e una ragazza, Samara, il cui aspetto precede la fama dello stesso film. Ingredienti cotti a puntino che hanno reso The Ring, e la pellicola da cui prende origine, il giapponese Ringu, piatti cinematografici prelibati, inseriti con prestigio nel menù dei grandi cult. Se per molti, la seconda parte dell'originale nipponico, può perdere di genuinità a causa di uno scarto culturale che differenzia il nostro gusto per il mistero e il paranormale rispetto a quel reverenziale terrore che i nipponici vantano per i fantasmi, rendendo alcune trovate filmiche un po' insolute e inefficaci, il film diretto da Gore Verbinski è più apprezzato da un pubblico occidentale perché parla una lingua cinematografica a noi più affine. Il cuore pulsante del giapponese Ringu si affianca a un sostrato di matrice religiosa vicino alla cultura giapponese, la cui mancata conoscenza potrebbe intaccare l'apprezzamento finale dell'opera. L'anima spirituale del film fa infatti riferimento alla religione shintoista precedente all'avvento del Buddhismo, nella quale i fantasmi occupano un ruolo preminente, in quanto esseri legati al concetto di trasformazione e alterazione. In Ringu a essere preminente è la categoria del fantasma Yuurei, "incatenato al mondo dei vivi e rianimato dal rancore" perché perito di morte violenta e per questo rigettato tra i viventi per compiere la propria vendetta. L'aspetto tipico di questo spirito prevede una veste bianca (non a caso il bianco in Oriente è associato al concetto di morte), la stessa che veste la figura della giovane Sadako (Samara nella versione americana). Dal canto suo, il remake americano tralascia l'aspetto più spirituale per giocare maggiormente sugli stilemi tipici dell'horror, alternando jump-scares a riprese ristrette cariche di angoscia. Un'attenzione concentrata sulla portata orrorifica della componente visiva che ha fatto di questo remake con protagonista Naomi Watts un film-cult del genere, superando nella memoria spettatoriale il suo originale giapponese.
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2. Insomnia da Insomnia (2002)
È forse uno dei film meno citati, analizzati e conosciuti di Christopher Nolan, eppure vive in Insomnia un gioco mentale e temporale che fa di ogni frammento narrativo un puzzle da ricostruire e reinterpretare. Sfilacciata cronologicamente, ma sempre coesa dal punto di vista logico e visivo, la pellicola del 2002 si presenta come un'opera di adattamento altamente riuscita, rendendo del tutto inedita una storia che prende vita dalle terre gelide della Norvegia. Un po' come compiuto da David Fincher con il suo Millenium: uomini che odiano le donne, anche Nolan affronta del materiale altrui soggiogandolo a proprio piacimento. Il regista ribalta la storia secondo i dettami della propria autorialità immergendo nuovamente lo spettatore in un universo già battuto, eppure apparentemente inesplorato. Le lande fredde della Norvegia lasciano spazio al gelo dell'Alaska, contenitore ambientale perfetto per una caccia all'uomo vestita da ricatto. Un duello psicologico che abbraccia il thriller, quello che Nolan prende in prestito da Erik Skjoldbjærg. La struttura narrativa non si discosta molto da quella originale, e così anche in Nolan vediamo due detective, Dormer e Hap, mandati in un paesino dell'Alaska per aiutare la polizia locale a risolvere un caso di omicidio. Il sospetto cade sull'ambiguo scrittore Walter Finch. Durante un inseguimento nella nebbia Dormer uccide accidentalmente il suo collega Hap e, per nascondere l'incidente, accusa del delitto il sospetto assassino in fuga. Ma Finch ha visto tutto e baratta il suo silenzio con quello di Dormer, che sta per avere le prove della colpevolezza dello scrittore. Ma a svolgere le indagini c'è anche la detective locale Ellie Burr. Ciò che differisce nell'opera di Nolan è tutta da ritrovarsi a livello visivo e registico che fa del remake un turbinio di angoscia e adrenalina, timore e sospetto, dove la realtà prende per mano l'apparenza e nulla è come sembra.
3. The Departed da Infernal Affairs (2006)
Quando si può affermare che un remake è perfettamente riuscito? Semplice, quando ci si dimentica che è un remake. E The Departed di Martin Scorsesee è uno dei rifacimenti meglio realizzati della storia del cinema. Trascrizione in chiave americana del cinese Infernal Affairs, il film del 2006 ha lasciato un segno indelebile nella memoria dei propri spettatori, risultando un successo ineguagliabile di pubblico e critica. Candidato a cinque premi Oscar, trionfa nelle categorie di miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale e miglior montaggio. Mettendo a confronto l'opera di Scorsese con quella di Andrew Lau e Alan Mai non si colgono molte differenze dal punto di vista narrativo: un poliziotto s'infiltra tra le fila di un pericolosissimo boss mafioso, mentre una talpa scelta dal boss in questione compie il percorso inverso. Ciò che segna invece un netto distacco tra le due opere è il trattamento dei personaggi, molto più emotivi quelli americani, prede dei propri istinti e dei brucianti sentimenti, più controllati quelli di matrice cinese. Uno sviluppo ed evoluzione interpretativa derivante soprattutto da una cultura differente, perché basata su una gestione delle proprie emozioni profondamente divergente. E così, a un Leonardo DiCaprio costantemente rabbioso, si oppone nel film di Andrew Lau e Alan Mak, un Tony Leung sì tormentato, ma in maniera più contenuta e implicita. Allo stesso tempo, a un Sullivan (Matt Damon) egoista, presuntuoso, lontano da un qualsivoglia sintomo di pentimento, si contrappone una versione in chiave cinese più empatico e umano. È una lotta tra titani quella instaurata tra The Departed e Infernal Affairs: un conflitto in cui non vi sono perdenti, ma solo vincitori.
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4. The Last Kiss da L'ultimo bacio (2006)
Fa quasi sorridere che il biglietto di accesso nel prestigioso panorama di Hollywood sia stato offerto a Gabriele Muccino grazie a un film non diretto da lui. La fama di Muccino in America deriva, infatti, dal remake di uno dei suoi film più apprezzati, ossia L'ultimo bacio. Uscito nelle sale nel 2006, The Last Kiss con protagonista Zach Braff tenta di restituire tutta l'angoscia e il timore che il regista nostrano è riuscito ad affidare nei suoi personaggi trentenni, incapaci di affrontare con sicurezza il mondo dei grandi. Quello che risulta dalla visione che il regista Tony Goldwin è però una versione stereotipata di matrice americana di qualcosa che esula dai contesti americani. Le urla perdono di forza, i sentimenti corrono a vuoto, e i protagonisti sono contenitori svuotati di qualsiasi emozione a cui aggrapparsi e immedesimarsi. Goldwin fa del film di Muccino una copia carbone su cui basare il proprio film, seguendo pedissequamente la storia narrata nell'originale italiano. E così al Carlo e Giulia di Stefano Accorsi e Giovanna Mezzogiorno si sostituiscono i Michael di Zach Braff e la Jenna di Jacinda Barrett. Come la loro controparte italiana, i due si presentano come la coppia perfetta, ma una gravidanza inaspettata, e l'incontro con la giovane, solare, ma adolescente Kim (Rachel Bilson) portano il protagonista sull'orlo di una crisi personale. Non è la prima volta che il tema dell'insicurezza e dell'incapacità degli adulti di oggi di affrontare il mondo dei grandi fa capolino nell'universo di Hollywood. Opere come Questi sono i 40, Young Adult e Giovani si diventa ne sono un classico esempio. Eppure, proprio perché incapaci di distaccarsi dal loro modello italiano, i personaggi di The Last Kiss sembrano figurine bidimensionali, senza carattere e svuotati psicologicamente. Troppo legati ai loro gemelli italiani, non vivono di originalità, ma soffrono di paure altrui, limitandosi al ruolo di simulacri e doppioni, senza raccontare le fatiche e i turbamenti vissuti dai giovani americani.
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5. Il funerale è servito da Funeral Party (2010)
Ci sono remake che sulla carta funzionano, promettono scintille per poi offrire disappunto. Ne è un esempio lampante Il funerale è servito, remake in chiave americana del cult inglese Funeral Party. Dalla borghesia inglese, crocevia di battute e umorismo sofisticato, il film diretto da Neil LaBute si getta di capofitto negli antri di una famiglia afroamericana, tra gag e prestiti fisici e verbali tipici di questo microcosmo culturale. La storia non si discosta dall'originale e il funerale del padre dei protagonisti si tramuta in pretesto creativo di errori, figuracce e momenti solo sulla carta esilaranti, ma qui scevro di forza e pregnanza. Le rivelazioni scioccanti, i vecchi risentimenti, i ricatti, le minacce e un cadavere sbagliato nella bara giusta così carichi di divertimento e simpatia nell'originale inglese sono nel remale americano solo meri strumenti di scompiglio e caos. A differenza di Matthew MacFadyen, leader di un gruppo attoriale sostenuto da un'invidiabile energia e un legame di pura chimica, Chris Rock ne Il funerale è servito appare fuori luogo e lontano da quella pregnanza interpretativa calamitante e capace di attirare lo sguardo e le risate dei propri spettatori. Ciò a dimostrazione di come una storia come quella di Funeral Party si adatti perfettamente a un contesto come quello British, incline a non perdere il proprio aplomb anche in situazioni disagianti come quelle lì vissute, perde poi di forza nel momento in cui viene sradicata, modificata e applicata a un contesto come quello americano così esagerato e urlato.
6. Oldboy da Oldboy (2013)
Dieci anni possono sembrare un'eternità, ma nel mondo del cinema si riducono a un battito di ciglia. Tanti per cambiare vita, troppo pochi per poter vedere realizzato un remake di un'opera cult come Oldboy. Eppure, affidando il progetto alle mani sapienti di Spike Lee, era forte l'intenzione di realizzare qualcosa di altrettanto sanguinario, perturbante, claustrofobico, replicando in chiave americana il linguaggio visivo dell'originale coreano. Il tentativo risulta però un esperimento fallito. Per quanto tenti di reiterare le sensazioni che vivono in ogni inquadratura del cult di Park Chan-Wook, Lee riscrive Oldboy affiancandosi al gergo americano, permettendo la lettura al proprio pubblico impoverendolo di tensione e angoscia. Il sangue scorre, certo, ma lo fa a discapito della componente psicologica. Una facilitazione di interpretazione data da un numero quanto più eccessivo di informazioni che invece l'originale coreano sottraeva, come avviene nei minuti iniziali del film con la presentazione del suo protagonista, e da un montaggio meno virtuosistico rispetto all'originale, sacrificando la bellezza sublime e sanguinaria di un piano sequenza già divenuto cult. La lama affilata che tagliava le viscere dello spettatore nell'originale coreano, si fanno una forbice dalla punta arrotondata. La vendetta del protagonista Joe Duchett (Josh Brolin) si sveste di quel senso di ritorsione e castigo della sua controparte coreana, preferendolo a un discorso melodrammatico sulla relatività del tempo. Una caduta (dis)umana che comincia nel delirio dell'ubriachezza e che prosegue in un racconto della prigionia che però non riesce a giustificare il comportamento dell'uomo e la sua sete di vendetta. Costruito sulla reiterazione narrativa, sono le scelte espressive volte ad adattare la storia al pubblico americano a fare di Oldboy un remake fallace e infelice.
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7. Sempre amici da Quasi amici (2017)
È un linguaggio fortemente influenzato sia gergalmente, che visivamente e culturalmente, dalla vita delle banlieu parigine, Quasi amici. Ed è proprio dallo scarto sociale, scaturito dall'incontro/scontro con la realtà borghese del centro cittadino che nasce la verve umoristica che ha fatto del film diretto da Olivier Nakache ed Éric Toledano un cult della cinematografia mondiale. Un'opera tanto divertente, quanto profondamente denunciatoria, da cui il mondo hollywoodiano non poteva esimersi dal realizzarne una versione del tutto personale e in chiave americana. Le origini da immigrato senegalese di Driss nell'opera francese, si tramutano nella condizione di cittadino afroamericano di Dell in quella americana. Il resto non muta dal punto di vista della trama, con un'attenzione particolare su temi caldi e molto vicini alla società a stelle e strisce come il razzismo e il concetto di famiglia, meno pregnanti e sentiti nella versione francese. Se in Quasi amici la storia d'amicizia tra Driss e il tetraplegico Philippe ruota attorno al contrasto tra la povertà della periferia francese, e la ricchezza del centro, in Sempre amici orienta l'attenzione dello spettatore verso un problema che mai come nel periodo di uscita del film (siamo in piena era Trump) era acuito toccando vette inesorabili come il razzismo. Una falla dell'integrazione che ha segnato da sempre la storia degli Stati Uniti e che non sembra voler mollare la presa, riproponendosi a intervalli regolari in tutta la sua violenza. Un manto xenofobo che tocca in maniera più leggera il terreno francese, per investire in tutta la sua potenza quello americano. Ecco perché il linguaggio proposto nella versione diretta da Neil Burger appare molto più semplice e diretto nella sua comprensione: permettendo allo spettatore di entrare nella mente dei personaggi, fino a scrutarne i sogni, ricordi, speranze, non solo si recupera un caposaldo del cinema classico americano, come quello della partecipazione affettiva del pubblico, ma si raggiunge in maniera più celere e diretta lo scopo principale del film: diffondere il monito di ingiustizia e razzismo che ancora tocca e avvolge il suolo americano. Al resto ci pensano le performance di Bryan Cranstone Kevin Hart, perfettamente in parte nei ruoli che furono di François Cluzet e Omar Sy.
8. CODA - I segni del cuore da La famiglia Bélier (2022)
Non servono tante parole per comunicare la profondità di un amore, soprattutto quello famigliare. Ne è la dimostrazione CODA - I segni del cuore, film trionfatore degli ultimi premi Oscar (Miglior Film, Miglior Sceneggiatura non originale, Miglior attore non protagonista) che con semplicità è riuscito a colpire al cuore del proprio pubblico, sfruttando la potenza espressiva di protagonisti privati della parola. Mettendo al centro dell'opera una famiglia di sordomuti, CODA (come affermiamo nella nostra recensione) sfida il prototipo di perfezione tanto avanzato dalla contemporanea società dell'immagine, ponendo in primo piano il legame puro, dolce e complice di una famiglia normale in quella diversità affidatale dagli occhi altrui. Sembra un dipinto della società americana, uno sguardo sulle difficoltà di una tipica famiglia di pescatori, CODA; in realtà il film diretto da Sian Heder non è altro che una rilettura in versione stelle e strisce della pellicola francese del 2014 La famiglia Bélier. A differenza del remake americano interpretato da attori sordomuti, l'originale d'Oltralpe presentava interpreti perfettamente udenti e parlanti. Una scelta di completa inclusione, quella di Heder, la quale modifica inoltre l'attività di agricoltori del film francese, con quella ittica, più adatta al contesto americano in cui è inserita, nel suo remake americano. Cambia la forma, ma la sostanza no, quella rimane identica: il cuore che pulsa, il talento che supera gli ostacoli e i pregiudizi, quelli sono elementi discorsivi che arrivano in entrambi i casi, sostenuti da due regie molto simili perché semplici e compiute a favore dell'emozione dello spettatore.
Bonus: The Office USA da The Office UK
C'è qualcosa che non funziona nella prima stagione di The Office USA. Greg Daniels, profondamente colpito dalla versione inglese, è caduto nell'errore di riproporre in maniera fedele e filologica il mondo creato da Stephen Merchant e Ricky Gervais nel microcosmo americano. Troppo distanti questi due universi, troppo divergenti per combaciare, ed ecco che il Michael Scott di Steve Carell è un boss antipatico, tracciato in maniera traballante e repulsiva. Poi qualcosa cambia. Daniels capisce che non basta compiere una semplice operazione di copia e incolla, ma di adattamento. Deve prendere lo schema stabilito dalla controparte inglese e riscriverlo in chiave americana. Facendo di ogni suo personaggio una rappresentazione in ridotto della componente umana statunitense, Daniels traccia un saggio antropologico sull'America di oggi rinchiudendolo tra le mura di un ufficio. Vizi e virtù di una società soggiogata dall'ambizione, voglia di strafare, essere simpatici e vincitori, dolci e fragili. Il resto è storia.