L'India tra passato e futuro
Gli esseri umani sono un po' come degli aquiloni. Volano, seguendo traiettorie non sempre determinate dalla volontà, arrivano lontano, ma c'è sempre un filo che li collega all'origine, ed è proprio grazie a quel filo che riescono ad alzarsi nel cielo. E' questo che sembra dirci Prashant Bhargava, regista di origini indiane ma nato e cresciuto a Chicago, qui alla sua prima esperienza cinematografica, che sceglie di incentrare su una delle festività più pittoresche e amate dalla popolazione indiana, la festa degli aquiloni che anima ogni anno le strade e i tetti di Ahmedabad.
Per celebrare l'avvenimento, l'uomo d'affari Jayesh, espatriato a Nuova Delhi in cerca di una prosperità economica altrimenti impossibile, e sua figlia, Priya, tornano in quella che un tempo era la loro casa, dove ancora vive il resto della famiglia. Il ritorno di un figlio, seppure per pochi giorni, è un avvenimento da festeggiare, eppure non per tutti la sua presenza e i suoi regali costosi sono una sorpresa ben accetta: ad esempio per il nipote Chakku, che ritiene Jayesh responsabile dell'alcolismo e della morte del padre. Anche per Priya ambientarsi non è facile: i suoi modi di fare sono considerati troppo moderni e spregiudicati, e per sfuggire ai rimproveri del padre intreccerà una breve ma intensa relazione con Bobby, un ragazzo romantico e sognatore che la introdurrà nei sobborghi della città, gli stessi in cui Chakku fa compagnia ai bambini di strada e, a suo modo, li difende dai soprusi dei loro datori di lavoro, e ne alleggerisce la vita con un po' di umorismo e vivacità.
A fare da collante tra tutte queste vicende parallele è la celebrazione di Uttarayana, capace di trasformare completamente il volto della città e di coinvolgere indistintamente tutti i suoi abitanti, mettendo in secondo piano, per il breve spazio di qualche ora, astio e risentimento. Bhargava è molto efficace nel trasmettere la vivacità e la poesia di questo momento, attraverso un uso dei colori e della musica che trasporta lo spettatore nell'atmosfera unica e autentica dell'India, lontanissima dalla monumentalità esibita dal cinema Bollywoodiano. E' evidente il suo intento di raccontare la vita vera del proprio luogo d'origine, facendoci penetrare, come osservatori privilegiati, nello spirito di uno dei suoi giorni più belli, e che non è, secondo le stesse parole del regista, che ha commentato il film in sala insieme al pubblico, soltanto un'occasione di festa e di svago, ma anche una forma di meditazione, di contatto con la nostra parte più privata, normalmente schiacciata dal confronto e dallo scontro con il mondo. Questa vocazione intimistica del film, che ci porta a seguire da vicino i personaggi, e ci restituisce, attraverso primi piani strettissimi, tutto il caleidoscopio di sentimenti che li anima, è l'aspetto più riuscito del lavoro di Bhargava, che per arrivare a questo risultato di grande delicatezza e realismo fa uso di un cast composto quasi interamente da non professionisti, ma che ha osservato per tre anni vivendo all'interno della loro comunità. Quello che il giovane regista non riesce a risolvere completamente è l'interazione tra le tante sottotrame che mette in gioco: lo scontro tra la visione moderna di Jayesh e l'attaccamento alla tradizione della sua famiglia d'origine, il conflitto tra lui e il nipote, la diversa visione della vita e dell'amore di Priya e Bobby sono tutti temi interessanti, ma che mancano di coesione e, lasciati a se stessi, diventano episodi destinati a non incontrarsi, e quindi approfondirsi, mai.Nella sua opera prima Patang, Bharghava fa comunque mostra di una sensibilità non comune, che si traduce tanto in uno sguardo attento e sincero sui personaggi quanto in un uso delle inquadrature e dei colori vivo, vibrante di energia e che sa tradurre in immagini ed emozioni il vero volto dell'India, quella del futuro e anche quella di un passato che non vuole scomparire.
Movieplayer.it
3.0/5