Quando Thomas si sveglia all'interno dell'ascensore che lo porta in superficie verso la Radura non ricorda ancora il suo nome, non sa chi è, dove si trova e perché è lì. Nulla del proprio passato, come tutti gli altri ragazzi che trova ad aspettarlo: la comunità vive senza memoria e secondo le proprie regole in questa valle selvaggia, circondata dalla mura di un misterioso labirinto le cui porte si aprono di giorno e si chiudono di notte.
Nessuno è mai riuscito ad attraversarlo, e nessuno è mai riuscito a vedere i misteriosi Dolenti che lo popolano e a restare vivo. Thomas è l'unico che sembra voler provare a capire, frammenti di ricordi affiorano durante i sogni, una sigla, una voce... "WCKD è buono". Ma le domande non sembrano avere una risposta, fino a che un giorno dall'ascensore sale una ragazza, Teresa: anche lei non ricorda nulla, tranne il nome di Thomas.
Lost in the maze
Da parte dei produttori, la ricerca di un nuovo franchise rivolto al pubblico young adult comincia ad essere compulsiva: poco importa quale sia la derivazione del genere, da quello sci-fiction al soprannaturale o urban fantasy, quello che conta è creare il fenomeno trovando la storia giusta che riesca a diventare un successo cinematografico oltre che letterario.
Presentato come il nuovo Hunger Games (come del resto è stato per Divergent) questo Maze Runner - Il labirinto, dai romanzi di James Dashner (ovviamente una trilogia, più un prequel), si differenzia dai suoi predecessori di sci fiction distopica essenzialmente per tre ragioni: un inconsueto approccio sostanzialmente più dark e meno patinato, la mancanza della descrizione, di solito posta come assunto iniziale, del nuovo ordine sociale distopico che ha portato allo svolgersi degli eventi, e soprattutto (per ora) si fa a meno dell'imprescindibile componente romantica.
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Già di per se questi tre fattori sarebbero sufficienti a conferire una certa dignità al film dell'esordiente Wes Ball, che nonostante vari difetti ha il pregio di riuscire bene o male a mantenere desta l'attenzione dello spettatore fino alla fine, ma soprattutto di suscitare la curiosità di vedere come prosegue la storia. Se non fosse per la durata eccessiva, potremmo trovarci davanti al perfetto pilot di un serial tv, sul cui impianto il film è costruito: in puro stile Lost, che ne costituisce il riferimento seriale più evidente, è scritto in maniera intelligente, dissemina enigmi e rimanda qualsiasi tipo di spiegazione: perché i protagonisti sono lì e chi ce li ha messi? Perché fanno quello che fanno? Bisogna arrivare alla fine del labirinto per avere le risposte, ma sono comunque parziali e (volutamente) insoddisfacenti, perché aprono le porte a nuovi scenari e nuovi quesiti che verranno chiariti nella prossima puntata. Forse.
Al livello successivo
Nobili echi letterari che rimandano a Il Signore delle Mosche, la comunità di ragazzi isolata in un contesto selvaggio, la società adulta fatta di gerarchie e regole a volte brutali, il tentativo di ritrovare l'identità perduta e di far fronte alla paura che spinge a sentire la propria prigione come l'unico luogo sicuro: temi da sociologia di gruppo reinterpretati in chiave young adult (ragazzi che emulano gli adulti, può esserci un soggetto più adatto in effetti?), riproposti dunque in ottica da serial tv (dai quali infatti provengono i due interpreti Dylan O'Brien e Kaya Scodelario) e non ultimo contaminati da una forte estetica da videogame.
Non a caso, insieme alle serie televisive, l'altra forma di intrattenimento che negli ultimi anni è più tributaria nei confronti del cinema è proprio quella dei videogiochi, sia a livello creativo che di produzione. Al di là delle scene di inseguimento nel labirinto, con salti e scivolate, le porte che si chiudono e i mostri che inseguono in perfetto stile runner game, anche in questo caso ritroviamo soprattutto la filosofia multilivello: si è spinti ad andare avanti e a finire lo schema per sbloccare quello successivo, cambiare scenario e vedere quali sorprese riserva. La fine non è la fine, ma è un nuovo inizio, e in questo senso il film non potrebbe essere più esplicito: "La fase uno è finita, ora comincia la fase due".
Conclusione
Non è il nuovo Hunger Games, ma è un passo avanti rispetto a Divergent. Strutturato come il pilota di una serie tv induce alla serialità, contaminandola con l'estetica e la filosofia del videogame: magari non così riuscito ed avvincente da rigiocarlo da capo, ma tutto sommato la voglia di vedere cosa c'è al livello successivo rimane.
Movieplayer.it
3.0/5