C'era un cinese nello spazio
Gaia è una traduttrice dal cinese all'italiano, che viene improvvisamente reclutata per un lavoro urgentissimo e insolito: la traduzione simultanea del dialogo tra Curti, ambiguo agente appartenente forse ai servizi segreti, e un misterioso individuo di nome Wang, che per tutta la durata del colloquio deve rimanere celato agli occhi della ragazza. In più, Gaia non ha la minima idea di dove si trovi, visto che è stata condotta sul luogo del colloquio con una benda sugli occhi. Presto, le cose si mettono in modo diverso da come la giovane si era aspettata, visto che il dialogo tra Curti e Wang prende la piega di un interrogatorio poliziesco, con largo uso di metodi intimidatori. Quando Gaia insiste per vedere in faccia il misterioso Wang, viene infine accontentata, ma si trova davanti a una sorpresa shockante: di fronte a lei c'è infatti un essere proveniente da un altro pianeta. La creatura afferma di essere venuta in pace, ma Curti e i suoi loschi colleghi non sembrano dare nessun credito alle sue affermazioni.
Sei anni dopo il divertente Piano 17, i fratelli Marco e Antonio Manetti portano ulteriormente avanti la loro idea di cinema di genere italiano del nuovo millennio, con un occhio rivolto a un passato mai dimenticato ed uno proiettato nel futuro, verso il digitale ed un uso creativo delle nuove tecnologie. La presenza di questo L'arrivo di Wang alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Controcampo Italiano, è già un risultato notevole per i due talentuosi registi romani, cinefili appassionati prima che dotati filmaker; così come è di buon auspicio il patrocinio di Rai Cinema per un progetto che batte addirittura i territori della fantascienza, genere da sempre poco frequentato dal nostro cinema, anche in quegli anni in cui il cinema di genere e di intrattenimento, nel nostro paese, ebbe il suo periodo di massimo fulgore. I Manetti rischiano e scelgono così di dirigere un'opera di science fiction, pur se insolita: l'azione si svolge per gran parte nei sotterranei del misterioso luogo in cui la creatura extraterrestre viene interrogata, e l'atmosfera, col progredire della storia, si caratterizza sempre più per i toni da thriller, con la tensione derivante prima dalla mancata visione (nostra e della protagonista) del soggetto che viene interrogato, e poi dall'incertezza sulle sue reali intenzioni, nel momento in cui la sua natura viene svelata. I due registi si rivelano molto abili nel giocare sull'ambiguità e sul dubbio, e nel costruire suspence tramite un semplice dialogo tra tre personaggi: al fastidio, presto trasformato in vera e propria repulsione, per i metodi inquisitori di Curti (un sempre bravo Ennio Fantastichini) si contrappone la pietà per un Wang presentato da subito come una vittima, ma anche i dubbi derivanti dalle effettive contraddizioni presenti nella sua storia. Un'ambiguità che attraversa tutto il racconto, accompagnando lo spettatore fin quasi all'ultima sequenza, e che vive di indizi contraddittori che la sceneggiatura abilmente dissemina per il film; il merito dei Manetti è anche quello di aver inserito, pur nella cornice di una pellicola che urla in ogni sequenza la sua appartenenza al genere, un abbozzo di riflessione sulla diversità e sul pregiudizio, e sul confine tra la necessità del dialogo con il diverso e quella della sicurezza. Resta comunque, L'arrivo di Wang, un film che ha nell'intrattenimento la sua principale ragion d'essere, con l'ironia disseminata a piene mani dalla sceneggiatura (i continui riferimenti della protagonista ad Amnesty International, il personaggio della signora Amounike, "primo contatto" dell'alieno Wang), il ritmo sostenuto e la regia sempre in bilico tra omaggi ai classici e consapevole smitizzazione degli stessi; e anche qualche inevitabile ingenuità narrativa, perdonabile (e forse persino caratterizzante) nel contesto e nell'humus cinematografico che la pellicola esprime. Da par suo, anche la protagonista Francesca Cuttica se la cava complessivamente bene in un ruolo non facile, caratterizzato da una parte dalla necessità di recitare, per larga parte del film, in una lingua sconosciuta, dall'altra dal dover simulare un dialogo con un interlocutore fisicamente non presente (vista la ricostruzione digitale del personaggio di Wang).
Siamo quindi di fronte a un'opera che suscita un'istintiva simpatia, per la sincera passione dimostrata (non da oggi) dai suoi autori, e per la loro ostinazione nel voler proporre, pur tra le mille difficoltà distributive, la loro personale idea di cinema. E non dispiace affatto l'idea, tutta da verificare ma già accarezzata dai registi, di un possibile sequel.
Movieplayer.it
3.0/5