Mi ricordo, sì io mi ricordo
Stupisce come, in un'epoca come quella contemporanea caratterizzata da continue e spesso acritiche rivalutazioni e riscoperte (ormai anche nei confronti di registi di serie Z), prima di Marco Spagnoli nessun altro avesse dedicato un documentario a Giuliano Montaldo, forse uno dei meno compresi e considerati registi del recente passato italiano. Eppure Montaldo rappresenta uno dei principali alfieri del cinema civile degli anni Sessanta e Settanta, tra i pochi autori del nostro panorama (insieme naturalmente a Elio Petri, a Francesco Rosi e a Damiano Damiani) che ha saputo ereditare le istanze stilistiche e ideologiche del Neorealismo per adattarle ai mutati e turbinosi contesti politici e sociali dell'epoca in cui viveva, bilanciando sempre nelle sue opere da una parte una rigorosa aderenza al reale e una cristallina visione ideologica, e dall'altra un'istintiva vocazione umanista e una naturale partecipazione simpatetica nei confronti della realtà raccontata. Fortuna che il critico Spagnoli, da alcuni anni dedicatosi anche all'attività di documentarista specializzandosi soprattutto nella riscoperta del cinema italiano del passato (suoi tra gli altri anche Giovanna Cau - Diversamente Giovane e Tonino Guerra: Il Cinema è una presenza), ha meritoriamente colmato un'imperdonabile lacuna rendendo omaggio all'autore di attraverso un biopic che, fin dal titolo, sottolinea sia la poliedrica versatilità, sia la freschezza e la vivacità intellettuale del "diversamente giovane" Montaldo, rivelando le molteplici facce dell'artista e dell'uomo.
Dagli esordi come interprete in ruoli secondari, all'apprendistato come aiuto regista presso maestri del calibro di Gillo Pontecorvo, fino all'esordio dietro la macchina da presa con Tiro al piccione nel 1961, ambientato durante la Repubblica di Salò, che rivela una forte adesione alla lezione neorealista. E poi, ancora, l'occasione unica di approdare a Hollywood girando i polizieschi Ad ogni costo (1967) con Edward G. Robinson e Gli intoccabili (1969) con John Cassavetes, che costituisce per lui un'altra fondamentale fonte d'ispirazione. Seguono gli anni dei capolavori del cinema impegnato come Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno (1973), che segnano il sodalizio con l'amico Gian Maria Volonté, ma anche con Ennio Morricone, con il quale collaborerà per ben sedici volte; senza dimenticare L'Agnese va a morire (1976) con protagonista una straordinaria Ingrid Thulin.Ogni tassello di questo articolato percorso artistico - tra cui l'affascinante esperienza della miniserie televisiva in coproduzione Marco Polo (1982) per la quale attraversò svariati continenti - viene filtrato dal il vivo ricordo di Giuliano Montaldo, che con il suo carisma e la sue doti affabulatorie è in grado di far letteralmente rivivere gli avvenimenti del passato. Più che la completezza nelle ricostruzione o la capacità d'analisi e contestualizzazione del suo corpus filmografico è proprio la presenza dello stesso autore il vero centro pulsante cui ruota tutto il documentario, l'indiscusso valore aggiunto di questa opera. Giuliano Montaldo: Quattro volte vent'anni, infatti, vive soprattutto dei gustosi aneddoti del protagonista (tra cui quelli nei titoli di coda riferiti all'amico Sergio Leone), dei suoi affettuosi battibecchi con la moglie Vera - sua amica, collaboratrice e amante di sempre - e dei momenti di commozione che si sprigionano rievocando ricordi dolorosi, come l'improvvisa morte di Salvador Allende (su cui stava realizzando un film), oppure l'orrore dei bombardamenti durante l'infanzia nella sua natia Genova. L'opera di Spagnoli risulta vincente soprattutto nel rendere l'aspetto più intimo e umano del personaggio, che emerge in particolare nel rapporto con amici di una vita come Felice Laudadio, Ennio Morricone, o Carlo Lizzani. Il risultato è un ritratto dalla dimensione famigliare che, anziché puntare sulla ricchezza del dettaglio, cerca di delineare un profilo attraverso una battuta, un gesto, un'espressione del viso del suo protagonista.