Recensione Fast and Furious 6 (2013)

Il sesto episodio della saga iniziata nel 2001 non tradisce la sua vocazione: c'è l'azione, in dosi sempre più robuste, c'è il piacere per il fan di ritrovare i personaggi a cui è affezionato, e c'è in più una componente grottesca e autoironica, con sequenze d'azione sempre più disancorate dalla credibilità.

Macchine veloci, genti più capaci

Dom e Brian si sono ormai ritirati a vita privata. La colossale rapina compiuta a Rio, che ha fruttato loro 100 milioni di dollari, ha permesso ai due uomini e al resto della banda di assicurarsi una vita tranquilla, seppur in incognito, e soprattutto lontano dal crimine. Eppure ai due, nonostante gli agi ottenuti (e un bambino appena arrivato per l'ex poliziotto) manca il brivido, l'azione, l'ebbrezza di una vita vissuta "un quarto di miglio alla volta". A soddisfare la loro sete di emozioni arriva presto l'agente dell'FBI Luke Hobbs, già sulle loro tracce a Rio: il possente poliziotto sta ora dando la caccia a un'organizzazione criminale che ha appena colpito in Russia, desiderosa di mettere le mani su un congegno in grado di far cadere gli Stati Uniti in un'oscurità totale. Non è però lo spirito patriottico che spinge Dom e Brian a collaborare con l'ex nemico: l'arma di persuasione è piuttosto una foto che ritrae Letty, donna un tempo amata da Dom, in mezzo alla banda ricercata, guidata dal pericoloso ex militare Owen Shaw. Per Dom, che finora aveva creduto Letty morta, il dubbio se accettare o meno la missione è fuori discussione. I due uomini radunano così il resto della banda, sparsa in varie località del mondo, per prepararla a una nuova avventura, che si snoderà tra Londra, gli Stati Uniti e la Spagna. La ricompensa, oltre alla riunione con Letty, sarà l'amnistia per tutti i membri del gruppo, e quindi la possibilità di tornare a casa.


Non sembrano invecchiare, né tanto meno stancarsi, i protagonisti della saga di Fast and Furious: il franchise "motori & testosterone", iniziato nel 2001 da Rob Cohen, con questo sesto capitolo si conferma infatti come uno dei più longevi (e redditizi) del cinema action recente. E' una squadra collaudata, quella che sullo schermo continua a deliziare con corse iperboliche, botte e botti i fanatici dell'azione più muscolare; così come è ormai collaudata la squadra a cui dobbiamo la realizzazione delle loro avventure, dal regista Justin Lin allo sceneggiatore Chris Morgan (entrambi dietro la macchina da presa a partire dal terzo capitolo, The Fast and The Furious: Tokyo Drift) fino al produttore Neal H. Moritz e, ovviamente, ai protagonisti Vin Diesel e Paul Walker, a cui torna ad affiancarsi la rediviva Michelle Rodriguez. Questa reiterazione di motivi e personaggi che sono ormai divenuti elementi costitutivi della saga fa sì che (come accade per ogni serial di successo) i fan respirino ad ogni film un po' "aria di casa": la struttura (abbastanza) corale del racconto, la simpatia, che si aggiunge alla capacità di intrattenere, dei suoi protagonisti, la rassicurante e spiccia filosofia che anima ogni episodio, sono elementi che esaltano l'aspetto "affettivo" della serializzazione. Non è un caso che i titoli di testa di questo Fast and Furious 6 si snodino come la sigla di una serie televisiva, con i credits che si sovrappongono alle immagini dei cinque capitoli precedenti, a comporre una singolare "sintesi" della saga.

Sintesi che comunque, va detto, non si rivela strettamente necessaria alla comprensione di questo sesto capitolo: la traccia narrativa, pur nei rimandi ai film precedenti, è autonoma e tranquillamente fruibile anche da chi si accostasse alla serie per la prima volta. "Traccia" è in fondo il termine giusto per definire la sceneggiatura di Fast and Furious 6: del folle piano del criminale Shaw (interpretato da Luke Evans) e della minaccia da lui rappresentata, ci interessa molto relativamente. Un po' più stimolante, almeno a livello di curiosità, il subplot dell'amnesia di Letty, pur abbastanza frusto nelle sue premesse: la scena in cui un Vin Diesel sempre monoespressivo (ma qualcuno si aspettava forse altro?) riconquista l'amata, con una folle corsa tra le strade di Londra, si rivela decisamente divertente. In primo piano, ancora una volta, il tema della famiglia (perfetto trait d'union per una saga intimamente conservatrice come questa) la cui difesa va a superare qualsiasi altra considerazione: non solo quelle sulla sicurezza nazionale, ma anche lo stesso timore di rimetterci la vita. Poco importa se la smemorata Letty ha sparato a Dom un colpo che miracolosamente ha mancato gli organi vitali: la donna è, oltre che l'amore di una vita per Dom, anche il membro di una singolare famiglia allargata, status che non permette a nessuno del gruppo di pensare di sacrificarla.
Al di là (e al di sopra) di tutto ciò, c'è ovviamente l'azione: profusa con generosità in tutto il film, in dosi massicce e tali da soddisfare anche i palati più esigenti; con grande profluvio di macchine velocissime e corse vorticose, botte, voli (letterali) e acrobazie, con un Dwayne Johnson che supera Vin Diesel quanto a statuarietà. In più, stavolta assistiamo all'esasperazione di quell'aspetto grottesco, iperrealistico e gioiosamente disancorato dalla credibilità, che carica molte sequenze d'azione di quel gusto da "trash di serie A" che strappa applausi alla platea. La saga che era partita con proclami di filosofia da strada (pur spiccia) presentandosi come manifesto dell'action americano di inizio millennio, inizia a ridere, e di gusto, di sé stessa. Ma la sua "missione", quella di intrattenere i fan, resta sostanzialmente immutata: missione che anche qui viene portata a termine con successo, in attesa di un settimo episodio (annunciato dall'immancabile controfinale) praticamente già in cantiere.

Movieplayer.it

3.0/5