Non necessariamente tutti quelli della generazione fortysomething che hanno bazzicato le discoteche negli ultimi vent'anni, sanno che la musica dance che hanno ballato e cantato in pista fino all'alba, per la maggior parte era tutta roba che veniva dalla Francia: Daft Punk, Dimitri from Paris, Cassius e Alex Gopher, fino ai più commerciali Modjo e Superman Lovers, con i tormentoni Lady e Blue. Si esatto, pure loro, tutti francesi: tutta la migliore musica elettronica dance nelle sue varianti house e garage, o comunque quella più ascoltata e commerciale era per lo più tutta figlia del cosiddetto French Touch.
La regista Mia Hansen-Løve ha deciso di raccontare con Eden quella che è anche la sua generazione attraverso gli anni che hanno visto affermarsi la musica elettronica in Francia, prendendo liberamente spunto dalla vita del fratello Sven, co-sceneggiatore del film e anche lui ex DJ con un parabola di vita che somiglia molto a quella del protagonista Paul, raccontando la sua vita dal 1992 fino al 2013, praticamente ai giorni nostri.
House dolce house
Paul vive a Parigi, è appassionato di musica con una predilezione per il garage, che descrive "come la house, ma più dolce". Trascorre le serate tra feste e rave party, e sogna di fare il DJ: con il suo migliore amico Stan fonda l'etichetta musicale Cheers, si mette a fare dischi e a suonare, e riscuote anche un certo successo. Organizzano feste, entrano in contatto con i migliori performer della house americana: l'illusione è quella di farne una professione, la propria vita. Paul lascia gli studi, vive solo di notte, la console è il suo mondo, e il distacco dalla realtà è lento ma progressivo, tra relazioni con ragazze che vanno e vengono, alcool e cocaina. Gli anni passano, così come le mode musicali, e la vita di Paul sembra girare sempre su se stessa e lui rimanere al palo, tra amicizie che durano e altre che finiscono dolorosamente, ragazze sbagliate o giuste ma con le quali non riesce a completarsi, incapace di crescere e di voltare pagina.
LSF lost souls forever
La regista è evidentemente più interessata a raccontare una storia di crescita e di incapacità di attraversare il guado del cambiamento, un film sulla vita piuttosto che un film sulla musica come ci si attenderebbe. Più che un affresco sull'ascesa irresistibile della house francese negli anni '90, é invece un indagine generazionale sulla difficoltà di guardare avanti e voltare pagina, abbandonando le suggestioni e i ricordi che per anni hanno legittimato la nostra esistenza; il rimanere aggrappati all'immagine che per anni gli specchi dei quali ci siamo circondanti hanno riflesso e la nostra ostinazione nel continuare a pensare che sia quella l'immagine che abbiamo bisogno di restituire a noi stessi e agli altri. Le stagioni della vita cambiano e per definizione ciclicamente ritornano e per il protagonista la console e le cuffie diventano un rifugio, l'unico luogo dove ha la percezione di essere in sintonia con se stesso, mentre il ritmo della vita è sempre più fuori sincrono per lui. La sua fede nel genere musicale che suona e al quale rimane fedelmente aggrappato, mentre intorno a lui le mode cambiano con l'avvento della salsa e di Beyoncé, è solo la metafora di un anima smarrita che confonde il fare con l'essere e continua e cercare la legittimazione di se stesso attraverso l'illusione effimera di ciò che è solo un talento.
Il ritmo della vita
In questo caso l'incedere catatonico del protagonista attraverso gli anni, sempre uguale anche fisicamente, non un accenno di barba o un look di capelli differente, è funzionale all'incedere piatto e monocorde del film, che a questo punto diventa un registro di stile evidentemente voluto. Lontano da qualsiasi tipo di approccio glamour, abbastanza sorprendentemente visto il soggetto del film, la giovane regista, già molto apprezzata in ambito festivaliero specialmente a Cannes, sceglie invece un approccio di indagine e una narrazione asciutta e realistica quasi in stile Dardenne, senza però avere la sufficiente incisività e senza poter creare la stessa empatia. Sicuramente evitando qualsiasi tipo di enfasi e di retorica riesce a tenersi lontano dai luoghi comuni della parabola di ascesa e declino e dai cliché di una classica storia di perdizione a base di droga, sesso e musica. Il pregio maggiore si rivela nello stesso tempo anche un difetto del film, imprigionato in uno stile dogmatico che lo riduce per lunghi tratti ad un oggetto affascinante quanto algido e inanimato. Il ritmo della musica è solo un sottofondo che esce a sprazzi, squarciando la monotonia generale: quello che la regista vorrebbe farci ascoltare è il ritmo della vita, racchiuso nei versi di Robert Creeley, la poesia The Rhythm a cui è riservato l'epilogo del film che ne racchiude il senso.
It is all a rhythm, from the shutting door, to the window opening, the seasons, the sun's light, the moon, the oceans, the growing of things...
Conclusione
Un film che in definitiva ha poco a che fare con la musica elettronica o il french touch: il ritmo di cui si parla è quello della vita e dei cambiamenti che non riusciamo a fare, raccontato con uno stile asciutto quasi dogmatico lontano dal glamour di qualsiasi film di genere musicale.
Movieplayer.it
3.0/5