Divertente, violento, discusso e ovviamente cult. Il cinema di Quentin Tarantino è un pianeta totalmente estraneo, capace di esaltare sia il cinefilo più incallito che lo spettatore più casuale (a patto che non abbia problemi con gli schizzi di sangue). Ben pochi sono i registi che possono contare sul proprio nome come marchio e il regista di Knoxville è uno di questi: non importa il titolo o la trama del film, ciò che conta è andare a vedere il nuovo lavoro di Quentin Tarantino. Una storia d'amore, quella tra il regista e i suoi fan, che è esplosa nel 1994 con Pulp Fiction e che si è consacrata definitivamente con il dittico con protagonista Uma Thurman, quel Kill Bill che in un caleidoscopico minestrone di generi, citazioni, cinematografie è considerato da molti il vero emblema del cinema di Tarantino. Una lieve battuta d'arresto in popolarità per il successivo esperimento Grindhouse realizzato insieme all'amico Robert Rodriguez: il suo quinto film A prova di morte era veramente troppo di nicchia nel suo omaggiare un certo cinema di genere che, al di fuori dei confini americani, non era nemmeno troppo conosciuto se non dai cultori.
Da lì in poi, la seconda metà di filmografia di Tarantino - se prestiamo fede al suo progetto di dieci film in totale - ci porterà un regista rinnovato, più maturo, più adulto. Il gangster movie che gli aveva dato fortuna nei primi anni (da Le iene a Jackie Brown) e il citazionismo più esasperato vengono messi da parte. Le stesse sceneggiature, pur continuando a presentare dialoghi brillanti, sembrano girare sempre più a vuoto. La scomparsa prematura della sua montatrice di fiducia Sally Menke (ultimo film: Bastardi senza gloria) porterà anche a un diverso ritmo dei suoi film che diventeranno sempre più lunghi superando sempre le due ore e mezza di durata. Infine, con gli ultimi due film, Tarantino sembra aver perso lo smalto geniale che lo caratterizzava. Criticato per essere diventato la copia di sé stesso, di girare a vuoto, persino di annoiare. Insomma, che fine ha fatto il Quentin Tarantino che amavamo? Cosa è successo nel frattempo e perché non è più il genio di una volta?
Perfezione senza gloria
Il sesto film di Quentin Tarantino fa un tuffo nella Storia e la modifica grazie a una "vendetta ebrea" da parte di Shosanna che riuscirà a sterminare gran parte dei nazisti e lo stesso Adolf Hitler. Bastardi senza gloria è forse il film in cui Tarantino dimostra di essere un Maestro della macchina da presa, capace di dar vita a un film sicuramente più maturo nei toni e nel ritmo rispetto ai precedenti pur rispettandone lo stile. Il merito del film è l'equilibrio: non troppo citazionista verso il cinema exploitation, da sempre il più forte richiamo nel cinema di Tarantino, con un ritmo dilatato ma mai noioso, violento come ci ha abituato ma lontano dalle immagini grafiche esplicite presenti in Kill Bill o in Le iene. Senza contare i personaggi pieni di carisma e fascino a partire dal colonnello Hans Landa (interpretato da Christoph Waltz che gli varrà la prima vittoria agli Oscar), gli stessi Bastardi del titolo, la già citata Shosanna che, in uno dei momenti migliori, si prepara alla serata di gala sulle note di David Bowie. Questa maturità registica porta Tarantino finalmente a essere riconosciuto definitivamente nel sistema hollywoodiano più di 15 anni dopo l'exploit di Pulp Fiction: Bastardi senza gloria viene candidato a 8 premi Oscar (secondo solo ad Avatar e The Hurt Locker che vincerà la serata), ma ne porterà a casa solo uno, quello per il migliore attore non protagonista. Un'occasione mancata per quello che non abbiamo timore di definire come uno dei migliori film del regista.
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Successo senza catene
Il successivo Django Unchained consacra Quentin Tarantino al grande pubblico. In questo western atipico dove lo schiavo Django (Jamie Foxx) viene liberato dal dottor Schulz (ancora Christoph Waltz, ancora premio Oscar) e insieme cercano di comprare la moglie di Django da Calvin Candie (un Leonardo DiCaprio che, invece, l'Oscar l'avrebbe meritato), Tarantino riscrive ancora una volta la Storia, stavolta andando indietro nel tempo fino al 1858 mostrando un'America ancora divisa tra nord e sud e vendicando, cinematograficamente, i soprusi subiti dagli schiavi neri. Django Unchained è proprio il film più commerciale di Tarantino, quello che accoglie il pubblico a braccia aperte e dove la violenza, quella vendicativa dei protagonisti, è talmente soddisfacente e liberatoria da non risultare eccessiva (per quanto ogni proiettile faccia spruzzare una quantità di sangue totalmente innaturale). Nonostante il tema importante si ride parecchio, ma anche in questo caso la scrittura di Tarantino riesce a equilibrare tutti gli elementi. L'unico difetto del film si può trovare nel montaggio: Fred Raskin prende l'eredità di Sally Menke e il risultato, purtroppo, si vede. Talvolta si ha la sensazione che non tutto stia filando per il verso giusto con salti temporali un po' approssimativi e sequenze che non si amalgamano perfettamente tra di loro. Il risultato alle volte dà adito a un certo manierismo, come se Tarantino dovesse fare un film "alla Tarantino" seguendo certi stilemi ormai consolidati ma che non si inseriscono perfettamente all'interno della narrazione. Difetto che però non ferma il successo del film (a tutt'oggi il titolo che ha incassato di più nella filmografia del regista) che arriverà a vincere due premi Oscar (miglior attore non protagonista e migliore sceneggiatura).
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L'odioso numero otto
L'attesa per il nuovo film di Quentin Tarantino, reduce da così tanto successo, è palpabile. Uno script leakato, cancellato e successivamente riscritto, prima nato come opera teatrale e poi trasformato in un film girato in 70mm dalla durata di più di 3 ore è il suo nuovo progetto. Si chiama The Hateful Eight e sarà un progetto discusso e criticato da più parti. Riprendendo l'ambientazione western, Tarantino dà vita a un vero e proprio horror coi tempi dilatati, ambientato tutto in un emporio, dove otto persone si trovano rinchiuse in attesa che finisca una tempesta. Per più della metà della sua durata, The Hateful Eight sembra girare a vuoto (critica che verrà mossa anche per il successivo film) per poi esplodere in una seconda parte iper-violenta. E che violenza! Per la prima volta nella sua carriera, la violenza è davvero disturbante. Non c'è più quel senso di divertimento, quella partecipazione a qualcosa di soddisfacente, esagerato e grottesco. Questa volta Tarantino vuole parlare dell'America di oggi senza modificarne la Storia mettendo in mostra un'americanità marcia e discutibile presente sin dalla fine della Guerra Civile. È una violenza piena di odio, di rabbia, fa parte della natura umana. Il sadismo di certi personaggi è sangue della stessa America che, solo un anno dopo, avrebbe scelto Donald Trump come suo nuovo Presidente. È respingente, questo numero otto, meno accomodante dei due film che l'hanno preceduto e, di conseguenza, ha allontanato una grande fetta di estimatori. A partire dall'America dove, per aver partecipato a una manifestazione a tema Black Lives Matter (incredibile come certe cose hanno il sapore di essere accadute oggi), il film è stato boicottato dalle forze dell'ordine. Altre vecchie accuse tornarono alla ribalta tacciando Tarantino di misoginia e razzismo. Lo stesso botteghino non ha premiato l'ottava fatica del regista e agli Oscar si è dovuto "accontentare" di un premio Oscar alla miglior colonna sonora dato finalmente a Ennio Morricone.
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C'era una volta Quentin Tarantino
Anche il suo ultimo film, C'era una volta a... Hollywood, è stato criticato più del dovuto a causa della sua lentezza e del suo essere forse troppo autoindulgente. Ancora una volta Tarantino torna indietro nel tempo, al 1969, per cambiare di nuovo la Storia americana, stavolta quella di Hollywood, facendo in modo di evitare l'assassinio di Sharon Tate per mano di un attore (e il suo stuntman) di film di serie B. E di nuovo la violenza del film, quasi del tutto evitata, si mostra solo negli ultimi dieci minuti in un film che dura 160 minuti. Si percepisce un tono sognante, rarefatto, nostalgico, anche malinconico, in C'era una volta a... Hollywood, un tono che non eravamo abituati a vedere nel cinema di Tarantino, da sempre un cinema frizzante, scoppiettante, a volte capace di adagiarsi e procedere misurato, ma che anticipava sempre i fuochi d'artificio. In questo caso, invece, i fuochi d'artificio sembrano non esserci. Nonostante il successo del film (un ottimo riscontro al botteghino e due premi Oscar vinti) e con un solo film mancante all'appello, la sensazione è quella di un Tarantino nel corso di una crisi di mezza età, fedele a sé stesso ma senza quel surplus che ci aveva conquistato. È davvero la fine del genio di Knoxville?
Un bel tocco
Quentin Tarantino non è più il genio di una volta. E siamo contenti di questo. È un regista che si è evoluto, che ha abbandonato la sua comfort zone e ha affinato sia la regia delle sue opere film dopo film che la qualità di scrittura. Nel frattempo è anche invecchiato, ma come fa il buon vino. Tarantino non vuole più semplicemente divertire facendo il DJ del cinema e servendo un ottimo pot-pourri. Tarantino, ora, ha deciso che il cinema lo vuole fare da zero, pur mantenendo il suo stile. È diventato un compositore e uno chef stellato che preferisce il sapore alla quantità. Con questo ciclo in cui revisiona la Storia dando vita a timeline alternative, in realtà Tarantino ci sta parlando del mondo di oggi, della discriminazione razziale, dell'America (e in questo senso Django Unchained, ma soprattutto The Hateful Eight acquistano nel 2020 tutto un altro significato), della frattura sociale e culturale. A suo modo, ha smesso di essere un regista d'intrattenimento ed è diventato un regista "impegnato" mantenendo inalterato il cuore di tutta la sua filmografia: il cinema stesso, motore che può cambiare la Storia (Bastardi senza gloria), profumo che commuove ed emoziona (C'era una volta a... Hollywood), linguaggio che rende possibile ridere dei problemi dell'America (Django Unchained) o colpire brutalmente la sensibilità mettendo in mostra quegli stessi problemi senza filtri (The Hateful Eight). Forse non è Tarantino che improvvisamente è incapace di scrivere, ma siamo noi spettatori che ci aspettiamo dal marchio sempre lo stesso film del passato che ci portiamo nel cuore dimenticando che Tarantino ha sempre spiazzato e rinnovato il suo cinema (Pulp Fiction - Jackie Brown - Kill Bill - A prova di morte, quattro film che disattendono le aspettative della vigilia). Non abbiamo più dialoghi su Like a Virgin o sui massaggi ai piedi, non avremo più gangster o battaglie a colpi di katana, ma abbiamo una faccia che ride proiettata sul fumo di un cinema, membri del Ku Klux Klan che fanno una figura ridicola come avrebbero meritato, una lettera attribuita a Lincoln totalmente inventata che sembra raccontare il sogno di un'America unita, il respiro di un'epoca che non esiste più. Manca solo un film a Quentin Tarantino per chiudere la sua carriera. Siamo certi che, da genio qual è, ci saluterà con un bel tocco. E ci mancherà molto.