Quando gli yankees si occupano di calcio
Gli incroci che portano alla realizzazione di Gracie, tradotto in italiano con il titolo più didascalico Il mio sogno più grande, sono quantomeno singolari. Ci troviamo di fronte ad uno dei (pochissimi) film statunitensi che ruotano intorno al mondo del calcio. Lo spunto è offerto da Elisabeth Shue, attrice nata nel Delaware proprio con il pallino per questo sport.
La Shue decide, dunque, non solo di finanziare e scommettere su una pellicola improntata sul pallone, ma ripropone, romanzandola quel tanto che basta, la propria storia di vita vissuta.
La ragazzina protagonista del film, quella che vuole a tutti i costi giocare nella squadra maschile della scuola e prendere il posto del fratello scomparso prematuramente, non è dunque altri che la Shue da giovane, mentre l'attrice/produttrice interpreta la madre di lei, indulgente e benevola.
Se si considera che il Davis Guggenheim che firma la regia è il marito della Shue, il quadro di famiglia è completo.
Probabilmente è proprio l'autoreferenzialità dell'impianto di base a rendere poco appetibile il film.
Che pur parte bene, in modo snello e senza prologhi eccessivamente dilatati, con alcune scelte di regia interessanti, come il modo ellittico di raffigurare la morte del fratello di Gracie, o come la scelta di alcune inquadrature, che mostrano la volontà di non rendere scontata e banale la pellicola. Ma l'assoluta prevedibilità del soggetto, il taglio del film, netto, manicheo, poco problematico, lo fanno scivolare ben presto nell'anonimato.
La storia di Gracie è quella che tanti altri film ci hanno già raccontato: un grande sogno, il mancato sostegno di amici e parenti, la forza di volontà e la tenacia, il primo spiraglio di luce, l'ascesa e la vittoria. C'è tutto nel canovaccio impostato dalla coppia Shue/Guggenheim, tutto quello che un "dramma" adolescenziale contemporaneo promette e, puntualmente, senza sussulti, mantiene.
In più una sciatteria di fondo, che emerge in particolar modo in un'articolazione dei dialoghi spesso imbarazzante fa vacillare ancor più la bontà del progetto.
Il mio sogno più grande è un'onesta storiella estiva, minata però alla base dall'eccessivo coinvolgimento nella storia dei realizzatori. Si perde così di vista l'obiettivo di raccontare una vicenda quantomeno solida ed efficace, per rinchiudersi nell'eccesso del sentimentalismo didascalico.