Chi ha paura delle bionde? Sicuramente non Alfred Hitchcock che, stando alle parole di François Truffaut, autore della storica intervista Il cinema secondo Hitchcock, "amava la donna inglese apparentemente timorata, capace di scatenarsi di punto in bianco." Per questo motivo nel corso degli anni la sua attenzione è stata completamente conquistata da una bellezza bionda, ma non sensuale e sessualmente sfacciata come quella di Marilyn Monroe o Brigitte Bardot. Al contrario le sue eroine sono dotate di un fascino discreto, algido che, al tempo stesso le rende misteriose ed ambigue pronte a trasformarsi in sex symbol irresistibili. Perché, come insegnava proprio il maestro del brivido, "se la seduzione è troppo evidente non c'è più suspence."
E proprio per queste caratteristiche Ingrid Bergman e Grace Kelly sono diventate le sue muse preferite dalle quali, poi, è stato abbandonato per amore. La prima per scappare in Italia tra le braccia di Roberto Rossellini e la seconda per indossare la corona dell'indimenticabile Principessa di Monaco.
Oggi, però, prendendo spunto da questo modello estetico e caratteriale, è arrivata un'altra protagonista che, con stile e moderazione tutta british, ha vestito i panni di una nuova bionda imprevedibile. Stiamo parlando di Rosamund Pike e della sua interpretazione di Amazing Amy Dunne nel già tanto acclamato L'amore bugiardo - Gone Girl di David Fincher. Qui, pur apparendo simile a "fiocchi di neve dai quali traspare un'impronta insanguinata", tanto per continuare a citare il re assoluto della suspence, attrice e personaggio fanno un passo avanti accentuando fino ai massimi livelli l'ambiguità di fondo. Il merito, ovviamente, è molto di Fincher e della scrittrice/sceneggiatrice Gillian Flynn. Entrambi, infatti, contribuiscono ad arricchire questa figura femminile di un'intelligenza macchinosa e razionale, oltre che di una forte autonomia rispetto al suo co-protagonista Ben Affleck. Qualità, queste, prese in prestito direttamente dalle eroine del soft boiled anni '40, in cui l'elemento femminile è in grado di manipolare la mente e le azioni maschili con sottile astuzia. In questo senso, dunque, la Pike, utilizzando un'eleganza e freddezza tutta hitchcockiana, è l'evoluzione moderna verso il successo di uno stuolo di indimenticabili angeli biondi e pericolosi.
Con Barbara Stanwyck si accende la fiamma del peccato
La capostipite delle dark lady platino è sicuramente Barbara Stanwyck, spietata, bugiarda e manipolatrice. Almeno nella sua interpretazione di Phyllis. L'attrice porta fieramente e senza tentennamenti la sua chioma bionda ne La fiamma del peccato, capolavoro di Billy Wilder del 1944, diventato modello e archetipo del soft boiled. Il film venne scritto a quattro mani dallo stesso regista e Raymond Chandler, adattando per il grande schermo il romanzo breve Double Indemnity, La morte paga doppio, di James Cain. Ma qual è l'elemento vincente di questa pellicola, capace di renderla un vero cult movie oltre che uno dei film preferiti di Woody Allen, tanto da rendergli omaggio in Misterioso omicidio a Manhattan? Oltre la maestria di Wilder, ovviamente, il punto forte di questa vicenda è il personaggio della seduttrice Phyllis Dietrichson, moglie insoddisfatta che convince un ignaro amante ad eliminare un marito molto più vecchio ed avaro dopo avergli fatto stipulare a suo beneficio una cospicua polizza d'assicurazione sugli infortuni.
Così Wilder accetta il rischio e "l'innovazione" di attribuire la debolezza e la tendenza alla fiducia, tipico dell'animo femminile, ad un personaggio maschile, ingannato da una donna che non lo ha mai amato e non ha mai amato nessuno perché è "guasta" dentro. Il film, anche grazie al fascino misterioso e ambiguo della Stanwych conquista sette nomination agli Oscar e nel 1981 riceve anche l'onore del remake Brivido caldo. Questa nuova versione, però, che lanciò Kathleen Turner accanto a William Hurt, è stata privata di una figura femminile spietata, sostituendo la freddezza del calcolo con la forza travolgente della passione.
Il postino suona sempre due volte per Lana
Nella storia del cinema sono pochi i film così fortemente evocativi. Forse sarà per quella sensazione di seduzione malata e pericolosa che attraversa tutta la storia o per i molti remake, tra cui quello "scandaloso" con Jack Nicholson e Jessica Lange. Sta di fatto, però, che il solo pronunciare questo titolo rievoca la sensualità bionda di Lana Turner, pericolosa sul set come nella vita, visti i suoi sette divorzi e l'assassinio dell'amante gangster John Stompanato. Interpretando Cora nella prima versione di Il postino suona sempre due volte firmata da Tay Garnett, la Turner infatti dà corpo e volto alla tentazione e ai suoi risvolti sanguinari, interpretando la donna che non solo dispone ma che determina anche l'azione. Anche in questo caso il punto di partenza è un romanzo di James M. Cain, con al centro un personaggio femminile annoiato da una vita matrimoniale di convenienza e deciso a rompere questa catena attraverso un delitto in cui coinvolgere un amante ottenebrato e indotto all'errore dalla passione. Il rapporto tra i due è ovviamente caratterizzato da eccessi con punte di ossessione, che portano alla doppia pianificazione del delitto di Nick, marito poco apprezzabile di Cora. Nonostante il loro piano riesca al secondo tentativo e i due riescano a sfuggire alla legge con tanto di compenso economico, sembrano non essere destinati a trovar pace. E in questo susseguirsi di abbandoni e nuovi riavvicinamenti è il personaggio di Cora che, attraverso la sua morte e le tracce lasciate dietro di sé, condanna il compagno di delitto alla camera a gas. Tanto per dire che più pericolosa di così si muore.
Faye, una bionda a Chinatown
Cappello, sopracciglia sottili, rossetto rosso fuoco e unghie laccate. Oltre, naturalmente una chioma bionda ad incorniciare un volto caratterizzato da freddezza e imperturbabilità. Questa è l'immagine della bionda pericolosa ricostruita da Roman Polanski e incarnata da Faye Dunaway nell'ultimo film americano del regista. È il 1974, Polanski è già lacerato dalla morte terribile della moglie Sharon Tate e non ne vuol proprio sapere di un lieto fine. Anche se, ad onore del vero, non è mai stato un fan dell'happy end. Così, costruisce un omaggio all'hard boiled mettendo al centro della vicenda una dark lady in biondo ambigua e sensuale, pronta a trarre in inganno l'altrettanto immancabile ex poliziotto, cinico neo detective per l'occasione interpretato da Jack Nicholson. In questa vicenda, costruita sullo sfondo del California Water Wars degli anni venti, il personaggio di Evelyn Mulwray tenta ancora, attraverso una finta debolezza, di coinvolgere il detective Gittes nel suo caso, riuscendo nell'intento, ovviamente attraverso l'arma infallibile della seduzione. Una tecnica che, dagli anni quaranta ad oggi, ancora funziona perfettamente. Così, con l'interpretazione della Dunaway, che valse all'attrice una nomination all'Oscar, il potere sessuale femminile e la sua applicazione senza molti scrupoli sono, se non il cuore centrale della narrazione, il motore che mette in moto l'intera vicenda smuovendo l'anima apparentemente non scalfibile del mondo maschile. D'altronde, la filosofia applicata da Barbara Stanwych e dalle altre protagoniste, arrivando fino alla Gone Girl Rosamund Pike, è molto semplice. Ossia vincere la forza degli uomini con la sola apparente debolezza delle donne. Perché alla fine dei conti nessun eroe può resistere alla tentazione di accorrere in aiuto di una donzella in pericolo.
Nicole è ambiziosa Da Morire
Abbandonate le ambientazioni anni quaranta e le atmosfere fumose di paesaggi notturni, si entra nell'era moderna con la Barbie Suzanne Stone, una bambola di ghiaccio che, travolta dall'ossessione per il successo e l'apparire seduce ed uccide con la leggerezza di una bambina. Ad incarnare questa minaccia caratterizzata da un aspetto rassicurante e da una bellezza quasi provinciale, è Nicole Kidman guidata dalla mano di un giovane Gus Van Sant, al suo primo film commissionato da una major. Da morire così segna uno spartiacque con l'immagine della bionda raccontato fino ad ora. Attraverso la vita e l'immagine di Suzanne, il desiderio continua a trasformare la donna in killer senza ricostruire, però, l'aurea dell'eroina maledetta. In qualche modo Van Sant e la sua "bionda" Nicole ripropongono l'imprevedibilità hitchcockiana giocando, però, su di un piano di apparente leggerezza. Le gesta di Suzanne, infatti, e la decisione di uccidere il marito Matt Dillon, la cui ambizione è avere un figlio e una vita borghese, non nascono da un'anima nera o da una passione sfrenata, ma sono il frutto di una superficiale esigenza di esistere attraverso l'apparire. Attenzione, però, in realtà si tratta solo di forma. Anzi, mossa dalla sua cieca volontà di diventare un personaggio televisivo, Suzanne mostra un volto ancora più spietato dietro il suo sorriso da bambola killer.
Il Basic Instint di Sharon
A conti fatti nessuna donna è stata più bionda e letale di lei. Sempre limitandoci all'ambito cinematografico, ovviamente. Ad essere onesti Sharon Stone non sarebbe piaciuta molto ad Hictchock. Il suo sex appeal è stato sempre troppo evidente e sfacciato, tanto da farle vestire con assoluta naturalezza il personaggio di Catherine Tramel, scrittrice e psicologa bisessuale, sospettata di uccidere i suoi amanti, e non solo, con un punteruolo. Indubbiamente il linguaggio sessuale è un arma che il personaggio di Catherine utilizza costantemente per pilotare le persone che entrano nella sua vita con maggior lucidità e sfacciataggine rispetto alle sue antenate.
Rispetto alle altre, lei non solo trae in tentazione il detective Nick Curran, alias Michael Douglas, con l'ormai famosa accavallata di gambe grazie alla quale la Stone e il regista Paul Verhoeven fecero sussultare la platea raffinata di Cannes nell'ormai lontano 1992, ma riesce a farla franca lasciando allo spettatore il piacere di intuire la verità prima del l'ignaro protagonista. Ed è proprio in questo senso che Catherine, nonostante le apparenze, si rivela la più hitchcockiana di tutte, riuscendo, proprio come la Amy dell'algida Pike, a tenere alta la tensione dimostrando che, in fin dei conti, il mistero e l'ambiguità sono donna.