L'uscita del prossimo mercoledì 27 novembre Midway, il film che racconta l'omonima battaglia determinante per le sorti degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, segna il ritorno in sala di Roland Emmerich con un progetto che gli sta a cuore da diversi anni: doveva girarlo già due decenni fa, ma fu costretto a rinunciare perché il budget necessario ai tempi (almeno 100 milioni di dollari) superava il tetto massimo che i produttori erano disposti a concedere. Fosse uscito all'epoca, sarebbe arrivato al cinema a distanza alquanto ravvicinata con Pearl Harbor, il lungometraggio di Michael Bay che, per lo meno a livello puramente cronologico, è sostanzialmente il prequel del film di Emmerich. Il paragone è quasi inevitabile e, a conti fatti, ne esce vincitore il cineasta tedesco, per i motivi che proviamo a spiegare in questo articolo.
Battaglie strutturali
Pensando a Pearl Harbor ritorna in mente l'attacco della recensione del mai troppo compianto Roger Ebert, decano della critica statunitense, che riassunse perfettamente, in una frase sola, il concetto ma anche la principale debolezza del film di Michael Bay: "È un film di due ore, allungato a tre, su come i giapponesi, il 6 dicembre 1941, bombardarono un triangolo amoroso americano." Il kolossal del 2001, massacrato dai recensori, andò bene al box office e vinse anche due Oscar, ma già ai tempi, sorvolando sull'annosa questione della correttezza storica, la gente ebbe da ridire proprio sulla struttura narrativa: è un dramma romantico, a detta dei più stucchevole e con tre protagonisti non particolarmente interessanti, che occupa una percentuale spropositata del tempo accordato al film prima che si passi alla sezione strettamente bellica, questa sì piuttosto spettacolare e in grado di giustificare il prezzo del biglietto.
Midway va dritto al sodo fin dall'inizio: l'importante è la battaglia e tutto ciò che la circondò, dal primo attacco giapponese ai tentativi di decifrare le comunicazioni in codice del nemico, a volte andando contro le direttive del governo (è molto attuale far dire a un personaggio la frase "Washington ha torto"). La vita privata di alcuni dei soldati è inclusa , ma è una sottotrama, non una distrazione chilometrica che appesantisce l'operazione. Il film di Roland Emmerich non è propriamente breve, ma sono 138 minuti puliti, senza digressioni particolarmente irrilevanti.
Azione!
La questione strutturale va di pari passo con quella delle scene d'azione, presenti quasi fin da subito e costruite con la classica abilità tecnica di Emmerich, abituato a esplosioni e sequenze spettacolari. In tali termini, il suo nuovo film non si discosta più di tanto dai suoi celebri disaster movies, e la componente visiva è a dir poco impeccabile: ogni macrosequenza ha una sua identità precisa, una struttura ben definita (inizio, parte centrale, fine) e un'esecuzione che fa sì che ogni passaggio sia chiaro, a livello di cosa sta accadendo e chi lo sta facendo. La tensione è costante, anche nelle scene di dialogo, spesso incentrate sullo spionaggio richiesto per capire e anticipare le mosse dell'esercito giapponese, e non c'è quella sensazione particolarmente artificiosa che si può avere con altri film simili, dove le licenze poetiche inserite per scopi drammaturgici risultano talmente evidenti da farci uscire temporaneamente dalla storia.
Roland Emmerich: le quattro variazioni del disaster movie moderno
Entrambi i lati
Laddove il film di Bay rientra nel canone dei lungometraggi bellici dove si celebra la potenza delle forze armate americane (la canzone America, Fuck Yeah! nel satirico Team America si basa su tutto un filone di produzioni di Jerry Bruckheimer, all'epoca principale collaboratore del regista), quello di Emmerich propone una visione più stratificata, concettualmente simile all'operazione di Clint Eastwood con il dittico Flags of Our Fathers - Lettere da Iwo Jima. Lì si rifletteva più sull'utilità della guerra e delle sue conseguenze (anche a livello di retaggio socio-politico e culturale), cosa che in questa sede viene a mancare.
C'è però, al netto di una certa prevalenza del punto di vista statunitense, una posizione a suo modo neutrale, che evita di dipingere il lato giapponese in modo stereotipicamente antagonistico, mostrando i nemici come uomini ligi al dovere ma non privi di dubbi su ciò che stavano facendo. Questo è evidente anche quando entrano in gioco le obbligatorie didascalie finali su ciò che accadde dopo, con alcune scritte incentrate proprio sui comandanti nipponici. Questo fa sì che il film di Emmerich risulti, a suo modo, più "umano" di quello di Bay, troppo costruito e artificiale per risultare credibile pur tirando in ballo eventi reali.