Parole, parole, parole
Eliza Naumann è bravissima a fare lo spelling delle parole, ad individuare cioè, dopo averle ascoltate, le lettere che le compongono. Parole difficili, parole lunghe, parole mai sentite prima. La sua straordinaria abilità la porta presto a conquistare una considerazione e un'attenzione nuove all'interno della sua famiglia finché, competizione dopo competizione, arriva il momento dell'agognata finale nazionale. Nel frattempo il mondo degli affetti di Eliza sembra non reggere al peso di un progressivo deterioramento delle relazioni che lo percorrono. Suo padre Saul, studioso e professore universitario in materie religiose, intravede nell'abilità della figlia un mezzo per accostarsi al trascendente, finendo per restarne ossessionato. La madre Miriam affronta dolorosamente il ricordo della tragica scomparsa dei genitori. Il fratello comincia a mettere in discussione l'autorità morale del padre, ribellandosi.
Quando giunge il gran giorno la crisi è ormai completa. La dote della piccola Eliza sembra proprio dover rivestire un ruolo decisivo nella vita di tutti coloro che le stanno attorno. E così sarà.
La sceneggiatura di Naomi Foner Gyllenhaal è un ben riuscito tentativo di affrontare il tema della ricerca di spiritualità nel mondo contemporaneo in modo tutto sommato coraggioso, interessante, mai banale e libero da facili suggestioni modaiole tanto in voga ad Hollywood, calandolo in una realtà famigliare credibile e credibilmente problematica. Richard Gere si cala alla perfezione nei panni dello yankee saggio alla ricerca del divino, presuntuoso forse, ma comunque sincero. Facile pensare che il suo lungo percorso di ricerca all'interno del buddismo debba essere stato un funzionale bacino di esperienze dal quale attingere.
La spiritualità di Saul, il suo carismatico e volitivo personaggio, è viziata da un accademismo che sa di ripiego. Saul ne è consapevole, e crede di trovare nella figlia il tramite iniziatico fra sé e la conoscenza mistica della tradizione cabalistica.
Nella tormentata psiche di Miriam (Juliette Binoche) le aspirazioni del marito a una riconquistata sacra unità assumono la forma di una patologia subdola che si manifesta a un certo punto, quasi accidentalmente, in maniera dirompente. Le inquietudini adolescenziali del figlio, infine, sembrano inevitabilmente destinate a incanalarsi su un terreno spirituale.
La tensione che percorre questo Parole d'amore scaturisce da un paradosso ben impostato: sono proprio il desiderio di ricomposizione con il divino, l'aspirazione all'ordine delle cose e dei nomi, il miraggio del controllo su sé stessi e sul mondo che ci circonda, a fungere da tragico fulcro su cui gli apparentemente solidi equilibri della famiglia finiranno per scricchiolare.
La piccola Eliza assume su di sé un peso immane. Da una parte sembra essere l'unica a poter raggiungere il dominio dei segni che la circondano, delle parole, e quindi del linguaggio, dei sentimenti e degli affetti. Dall'altra è la sola ad aver conservato quell'innocenza e quella spontaneità in grado di ricomporre la serenità domestica recuperandone la dimensione più semplice e autentica. La giovanissima Flora Cross offre una prova stupefacente per ricchezza espressiva, controllo e maturità offrendo una magnifica sponda alle indubbie capacità di Gere e Binoche.
Scott McGehee e David Siegel ci mettono una loro sorta di "realismo magico", contaminando le immagini con abili e misurati effetti visivi, di sapore vagamente retrò ma di grande resa poetica. La maggiore abilità sta proprio in questo mantenersi in bilico tra due registri, quello mistico-fantastico e quello quotidiano-banale, senza cadere vittime di eccessi convenzionali e stereotipati, sia sul versante "american way of life" che su quello new age. Ne risulta un prodotto assolutamente personale, capace di esprimere amore per i propri personaggi, fiducia nei propri mezzi cinematografici, e un'originale angolazione da cui guardare al disgregamento delle relazioni sociali.
Il punto debole del film è costituito senza dubbio dalle gare di spelling, manifestazioni popolari e seguite negli USA (le finali sono trasmesse in diretta dalla rete televisiva ESPN), ma che risultano del tutto incomprensibili e prive di pathos per i non anglofoni.