Quelli delle madri sono abbracci dolci; sono approdi sicuri per anime in tormenta. Sono àncore salvifiche in acque in tempesta, le madri; fari illuminanti sentieri imboccati nel buio della paura.
Occhi che seguono e mani che allontanano pericoli più o meno imminenti: le madri sono figure reiterate la cui carica emotiva viene enfatizzata e sfruttata nel mondo del cinema e, in particolare, da quel genere che delle paure nascoste, dei traumi repressi, si fa mero cantore: l'horror. E in quel giacimento aureo di tensione orrorifica, la presenza della madre si sdoppia, facendosi proiezione di incubi mai espiati, e dolori interiorizzati, e difensore di colpi assestati da presenze incorporee, nate dal grembo di paure e fobie.
Che siano accompagnatrici silenti di ossessioni, o petti su cui posare il proprio sguardo per nascondersi dalle bruttezze del mondo reale e immaginato, le madri prendono per mano tanto i propri figli cinematografici, quanto gli spettatori in sala, accompagnandoli lungo un percorso catartico attraverso cui superare le proprie paure represse. Grazie alle madri i mostri si fanno visibili e per questo annientabili, grazie alle madri il sistema delle paure si mostra nei suoi meccanismi così da disattivarlo. Che siano una riproposizione contemporanea di una Medea dell'inconscio, o anime pronte a sacrificarsi per i propri figli, dal recente (e italianissimo) Pantafa (diretto da Emanuele Scaringi al cinema il 30 marzo ad opera di Fandango e Rai Cinema.) a cult come The Ring e Babadook, sono tanti i film horror che si sono ancorati a tale presenza per aprire nuovi percorsi, dar vita a nuovi incubi, rendere reali innumerevoli paure.
1. L'horror all'italiana: Pantafa
Cosa crea un pregiudizio? La reiterazione di certi pensieri confermati dalla riproposizione di certi eventi che vanno in un qualche modo a fortificare tale ideali. E così, l'uscita al cinema di horror dall'orrorifica fattura di produzione anglo-americana hanno dato vita a quel pensiero stereotipato secondo cui noi italiani un film del genere non saremmo proprio in grado di farlo. Eppure, siamo figli di Dario Argento, di Mario Bava, del primo Pupi Avati. Tentando di divincolarsi da lacci troppo stretti che si ancorano a un cinema italiano troppo timoroso e troppo debole per mettersi a livello con produzioni oltreoceano, Emanuele Scaringi con il suo Pantafa raccoglie tra le mani gli insegnamenti di autori a lui precedenti, inserendo nel proprio dialogo cinematografico quel lato scaramantico e spettrale di un'Italia pagana.
Le leggende di borghi ancorati a un pensiero arcaico, e le narrative tramandate da generazione a generazione, si fanno base imprescindibile a un sistema che mescola l'antichità popolare con l'eredità cinematografica del genere dell'orrore. Uno scambio di battute entro le quali il regista inserisce perfettamente la figura della madre come prodigioso trait d'union. Kasia Smutniak si fa dunque conduttore umano di spiriti antichi, e strumento di difesa per la piccola Nina (Greta Santi). Un gioco di tensione sorretto tutto dalla potenza del fuori campo e - per questo - di un invisibile capace di investire di ulteriore angoscia il substrato di terrore generato dalle sequenze di un film che, come Pantafa, non ha nulla da invidiare ai suoi simili di lingua inglese.
2. Il male australiano: Babadook
È nelle urla del piccolo Samuel in macchina che si concentra tutta l'insostenibile angoscia e paura di Babadook. Nel film della regista australiana Jennifer Kent, si ritrova ancora una volta una lotta a due tra le fauci invisibili di un mostro pronto ad attaccare vittime innocenti, e il coraggio di una madre decisa a farsi guerriera e protettrice dell'incolumità del proprio figlio. In una rete intricata e tesa sul filo della tensione, lo spettatore è chiamato a osservare la concretizzazione della proprie paure in formato visivo: la paura di avere a che fare con un figlio iperattivo e ingestibile; la paura di perdere il centro della propria esistenza; la paura di affrontare il mostro che di quegli incubi celati si fa orrorifica personificazione. Nessun jump-scare, nessun suono sincopato: è negli squarci di una fotografia cinerea che veste tutto di abiti funerei, o negli spazi di espressioni di vessata esasperazione da parte di un'ottima Essie Davis nei panni di Amelia che Babadook rilascia il suo potere terrorifico. Un potere di cui non riusciamo ancora a fare a meno, rimanendovi sublimemente incantanti con la bocca aperta da uno stupore misto a paura.
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3. Il grembo del male: Hereditary e La madre
Nel grande contenitore del genere horror la figura della madre può anche elevarsi a qualcosa di misterioso, terribile, angoscioso. Il suo grembo si fa fucina del male; nel suo corpo si radica il gene del terrore, concretizzandosi nelle vesti del figlio dell'incubo e della sofferenza. Si insidia nella figura della madre la sua nemesi più angosciante e disumana, rilasciando nell'aria circostante spore di infimo terrore. E di personaggi femminili che da esseri materni si tramutano in personificazioni del male e dell'incubo, il genere horror si è affidato innumerevoli volte, da Profondo Rosso, a La casa dei 1000 corpi, fino recentemente a due titoli come Hereditary e La madre.
Uscito nel 2018, Hereditary - Le radici del male segna l'ambizioso debutto al cinema di un regista fuori dagli schemi come Ari Aster. Prima di scuotere l'immaginario collettivo con gli incubi di Midsommar, il regista aveva già provveduto a turbare i nostri incubi con una famiglia dalla disturbante disfunzionalità, nella quale l'elaborazione del lutto si tramuta in grembo materno entro cui cullare germi di un male mai forse affrontato, ma tenuto latente e sonnambulo. Attraverso la potenza di una macchina da presa che si muove lenta, si innesta nello spettatore un funesto presagio; un sentimento di terrore che nasce tutto da una madre, e dalla madre muore.
Di cinque anni precedenti a Hereditary, anche La madre affonda le proprie radici nel tema mostruoso della figura materna. Un avvertimento allo spettatore già contenuto tra le fila del proprio semplice titolo, entro il quale nascondere la potenza di un duplice ruolo materno al quale affidare destini e incubi dei propri protagonisti. La madre è la storia di una maternità sottratta, ma anche di una maternità affidata e una ripresa con fare vendicativo da uno spirito irrequieto. Una triade materna, quella narrata da Andy Muschietti (e interpretata tra gli altri da Jessica Chastain nei panni di Annabel) con un ritmo lento e per questo ancora più angosciante e minaccioso. Ad avvolgere un susseguirsi di sequenze ad alto tasso di irrequieto disagio, è una fotografia lugubre, nefasta, ombrosa, proprio come la presenza della Madre pronta a rivendicare il proprio ruolo nel mondo.
4. La madre degli horror: Naomi Watts in The Ring e Goodnight Mommy
Ci sono interpreti che trovano in un determinato genere il proprio habitat d'elezione. Una comfort zone cinematografia entro cui poter dare il meglio di sé. Naomi Watts è un'attrice vulcanica, camaleontica, talentosa, capace a inserirsi alla perfezione in ogni genere, da quello dramedy (Giovani si diventa) a quello drammatico (21 grammi). Ma è tra le fila dei film horror che l'attrice australiana riesce a trovare la propria valvola di sfogo, elargendo performance tanto credibili e intense, quanto inquietanti e angoscianti. Performance che, caso vuole, la vedono spesso nel ruolo di madre. Ed è in questo contesto che la sua carriera ha conosciuto un primo lancio nell'universo hollywoodiano grazie al cult inter-generazionale di The Ring.
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Del film di Gore Verbinski si è impresso immediatamente nell'immaginario collettivo il volto coperto da lunghi capelli neri di Samara. Eppure, a bucare lo schermo è soprattutto una Naomi Watts nei panni tradizionali (ma non per questo banali) di una madre preoccupata e pronta a tutto pur di salvare il proprio figlio dalle morse del male. Una quest umana e genitoriale, avvolta da una fotografia glaciale, fredda, come i corpi esanimi toccati dal fantasma di Samara. L'opera di Verbinski tende infatti a fare a meno dell'aspetto più spirituale dell'originale nipponico (Ringu) per puntare maggiormente sulla componente umana e i risvolti psicologici e fisici che tali eventi producono sui protagonisti. Una scelta dettata da un linguaggio più affine al pubblico occidentale di destinazione, che permette alla Watts di sottolineare i rimorsi e le paure di una madre segnata da una presenza maledetta all'interno del proprio ristretto nucleo domestico. Un ruolo, questo, che trova la propria apparente nemesi in Goodnight Mommy.
Avvolta da una maschera che ne cela il viso, la sua performance si fa galleria di intuizioni e sospetti nella mente dello spettatore. Un personaggio, il suo, che si eleva a guida imprescindibile nei meandri di realtà talmente falsate, da mettere in dubbio lo stesso ruolo materno affidato alla sua protagonista. Il thriller psicologico diretto da Matt Sobel - e remake dell'omonimo film austriaco di Severin Fiala - si ritrova dunque a giocare una gara ad armi pari tra crisi di identità e insidiose ambiguità. È una ninna nanna del terrore, Goodnight Mommy dove la voce della madre si fa linea da seguire in un labirinto pronto a confondere la mente degli spettatori, tra ambienti domestici e fienili ammantati di non detti e segreti. Corpo senza volto, quella della Watts è una mummia materna che investe di paura e infiniti dubbi tanto i propri figli, quanto - per proiezione - i propri spettatori. Essenza che si muove senza identità, il suo personaggio fa a meno del nome, come del volto, limitandosi al suo solo ruolo genitoriale di "mamma". Una madre ambigua, dicotomica, dal doppio volto celato e per questo ancora più temibile e orrorifica.
Dopo questo excursus vi lasciamo nelle mani di Pantafa, con la speranza che non vi rubi il respiro!