Se c'è un tema ricorrente nel cinema di Gabriele Muccino, è senza dubbio quello della paternità. Già da L'ultimo bacio, questa incombente condizione che sta per arrivare a spazzar via la spensieratezza nella vita di Carlo (uno Stefano Accorsi ancora lontano da 1992) è il motore dell'intera vicenda, più degli sguardi languidi di Martina Stella.
Il regista romano ci è tornato sopra più e più volte, con risultati non sempre di egual valore, ma comunque con la sincerità narrativa, con l'urgenza di un racconto interiore che si esteriorizza in maniera personale, che lo ha caratterizzato fin dal suo primo ciak. Ora con Padri e Figlie, Muccino firma il suo film più maturo, con consapevolezza, sia dal punto di vista narrativo che da quello registico.
Uno stile personale che matura
È come sempre nervosa, la sua macchina da presa: non stai quasi mai ferma, si insinua e indaga, sfacciata e quasi maleducata, nel privato più intimo di tutti i personaggi, per riferire a noi cosa passa loro per la testa e, soprattutto, per il cuore. Ma mai come ora è sicura dei suoi movimenti, riprendendo i famosi piani sequenza nelle scene più concitate, raggiungendo una maestria che in molti hanno riconosciuto già in passato. Molta critica italiana, purtroppo, sceglie di sostenere alcuni autori in patria e fuori (come Paolo Sorrentino, per citare l'esempio più eclatante) e di stroncarne deliberatamente altri. Gabriele Muccino fa parte di quella fuga di cervelli e di arti che per essere apprezzato per ciò che vale è dovuto andarsene all'estero, corteggiato da un attore come Will Smith, altro esempio di sorprendente cambiamento nel corso della sua carriera. Soffre della stroncatura per partito preso, il cinema di Muccino, ma in verità egli stesso ammette senza alcun problema i passi falsi e i film in cui è stato fallace, come Quello che so sull'amore.
In Padri e figlie Russell Crowe sarebbe fuori parte: difficile con quel fisico rude, la voce roca e la barba sempre incolta, vederlo nei panni dello scrittore premio Pulitzer e padre amorevole. Ma fa un lavoro incredibile, da attore di prim'ordine qual è. Jake farebbe di tutto per la sua bambina (Kylie Rogers nuova giovanissima-prodigio?), e non come lo dicono decine e decine di padri. A tratti potrebbe persino risultare troppo perfetto, ma in verità sfoga la sua rabbia e le sue difficoltà altrove, lontano dagli occhioni di sua figlia.
Un cast di attori incredibili
Occhioni che poi, crescendo, diventano quelli di Amanda Seyfried, in una storia raccontata a più livelli, a più strati, graffiante sopra e sottopelle. La Katie adulta è una ragazza interrotta che si autodistrugge, si ubriaca di sesso senza senso, rovina volontariamente tutto ciò che la vita le offre di bello. E di storie vere così, chi vi scrive ne ha ascoltate tante da non poter restare indifferente all'interpretazione della Seyfried, anche lei fuori dai ruoli solo divertenti o solo sensuali, monocromatici che finora ha interpretato. Vuole aiutare e ha bisogno di aiuto, Katie, che la vita ha messo alla prova troppo giovane per non essere così problematica.
E c'è anche Jane Fonda, poco sfruttata nella promozione internazionale del film, donna magnifica, nei panni di un personaggio d'altri tempi (del resto il passato, alternato prepotentemente al presente in questo film, è un altro tempo), la editor monumentale come lo è la stessa Jane. Un film che ci obbliga a ripensarci, per giorni, che tocca le corde personali anche di chi ha avuto un vissuto diverso, che vuole frugare le nostre fragilità e obbligarci a farci i conti.
Movieplayer.it
4.0/5